3 Settembre 2020

Fallimenti: note di variazione anche senza insinuazione al passivo

di Roberto Curcu
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La scheda di FISCOPRATICO

Era il febbraio 2020 quando l’Agenzia delle Entrate, citando sé stessa, precisava che il creditore che non si insinua al passivo di un fallimento, o vede la sua istanza rigettata per scadenza dei termini, non ha diritto ad emettere nota di variazione in diminuzione per recuperare l’Iva che ha versato in sede di emissione della fattura al proprio cliente, e che non ha incassato e non incasserà verosimilmente mai.

Infatti, il creditore che non si insinua nel fallimento, non ha diritto alla ripartizione dell’attivo fallimentare, e, alla chiusura del fallimento, difficilmente avrà la possibilità di esperire forme di esecuzione individuale, su un soggetto che probabilmente non esisterà più (società), o comunque non avrà patrimonio disponibile.

L’Agenzia delle Entrate, tipicamente, preferisce citare sé stessa e confermare gli errori interpretativi del passato, piuttosto che analizzare le cose da un punto di vista sostanziale e chiedersi se non sia violato il principio di neutralità dell’Iva, secondo il quale può essere versata solo l’imposta sulla quale si è esercitata la rivalsa, e che è stata incassata dal proprio cliente.

In realtà, la normativa comunitaria prevede che l’imposta fatturata e versata all’Erario può essere rettificata in diminuzione quando l’operazione originaria sia oggetto di annullamento, risoluzione o recesso, o mancato pagamento; solo nel caso di mancato pagamento, gli Stati membri possono imporre dei limiti, che non violino comunque il diritto alla neutralità dell’imposta.

Nel corso degli anni in numerosi casi, poi sfociati in sentenze della Corte, ci si è chiesti quando il mancato incasso del corrispettivo derivi da “annullamento, recesso, risoluzione”, oppure da “mancato pagamento”, poiché nel primo caso il diritto a rettificare l’Iva originariamente fatturata e versata non può essere in nessun caso limitato dagli Stati membri, e – se alcune limitazioni sono poste – il contribuente ha diritto a non subirle, in quanto ha la facoltà di applicare direttamente il diritto comunitario e disapplicare le norme del proprio Stato, incompatibili con tale fonte normativa sovraordinata.

Per la Corte di Giustizia, quindi, è importante che sia chiaro che la possibilità di limitare il diritto alla detrazione, è limitata ai casi di mancato pagamento, in quanto lo stesso può essere difficile da accertare o essere solo provvisorio; in tutti gli altri casi, non essendoci rischi di danno erariale, nessuna limitazione può essere imposta, indipendentemente dalla formulazione letterale dell’articolo 90 della Direttiva, che, benché faccia riferimento a casi di “annullamento, recesso risoluzione”, include tutti i casi in cui un contratto non è stato onorato, e quindi non c’è una cessione di beni o una prestazione di servizi da assoggettare ad imposta.

Inoltre, la Corte di Giustizia ha elaborato un principio che va un po’ al di là di quella che è l’interpretazione formale della norma, in quanto parte dal presupposto che le limitazioni che possono imporre gli Stati membri, devono essere strettamente limitate al raggiungimento del risultato specifico previsto dalla normativa, che nel caso specifico è quello avere certezza dell’omesso pagamento, e di evitare che, dopo la variazione in diminuzione, avvenga il pagamento.

In particolare, già nel 2018 la Corte statuì che “le formalità che i soggetti passivi devono adempiere per esercitare, di fronte alle autorità tributarie, il diritto di procedere a una riduzione della base imponibile dell’Iva siano limitate a quelle che consentono di dimostrare che, successivamente alla conclusione della transazione, una parte o la totalità della controprestazione non potrà più, in modo definitivo, essere percepita”.

In sostanza, dalla elaborazione della Corte di Giustizia emerge che, quando il mancato pagamento si considera definitivo, il contribuente ha diritto a rettificare l’importo dell’Iva a suo tempo versata e lo Stato non può imporgli alcun limite.

Questi principi, poi, hanno portato la Corte a statuire, con l’ordinanza C-292/19 che “uno Stato membro deve consentire la riduzione della base imponibile dell’Iva se il soggetto passivo può dimostrare che il credito che detiene nei confronti del suo debitore è di natura definitivamente irrecuperabile”, invitando il giudice del rinvio a considerare tale quello di un soggetto che è stato dichiarato estinto al termine di una procedura di liquidazione prevista dal diritto ungherese.

Nella sentenza C-146/19, la Corte ha infine statuito che è contraria al diritto comunitario, e quindi non applicabile, “una normativa di uno Stato membro, in virtù della quale ad un soggetto passivo viene rifiutato il diritto alla riduzione dell’imposta sul valore aggiunto assolta e relativa ad un credito non recuperabile qualora egli abbia omesso di insinuare tale credito nella procedura fallimentare instaurata nei confronti del suo debitore, quand’anche detto soggetto dimostri che, se avesse insinuato il credito in questione, questo non sarebbe stato riscosso”.