3 Settembre 2020

Leverage cash out: l’Agenzia insiste anche dopo l’ordinanza della Suprema Corte

di Andrea CaboniGianluca Cristofori
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La scheda di FISCOPRATICO

Nel corso degli ultimi anni sono stati incardinati numerosi contenziosi in materia tributaria a seguito di contestazioni dell’Amministrazione finanziaria volte a riqualificare, ai sensi della disciplina anti elusione (attualmente, l’articolo 10-bis L. 212/2000, c.d. “Statuto dei diritti del contribuente”), cessioni di partecipazioni sociali, realizzate da persone fisiche non in regime d’impresa – previa rideterminazione del relativo valore fiscalmente riconosciuto ai sensi dell’articolo 5 L. 448/2001 in operazioni abusive di c.d. “leverage cash out”.

Si è, quindi, sviluppato un acceso dibattito in merito alla natura asseritamente elusiva di tali operazioni, che ha evidenziato l’esistenza di un contrasto tra la posizione assunta dell’Amministrazione finanziaria e l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, di merito e, da ultimo, anche di legittimità.

Anche nella recente risposta all’istanza di interpello n. 242 del 5 agosto 2020, l’Agenzia delle Entrate ha affermato che costituisce una fattispecie elusiva (di cui all’articolo 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente) l’operazione di cessione, da parte di tutti i soci persone fisiche, delle partecipazioni detenute in una s.r.l., previamente “rivalutate”, a beneficio di una “società veicolo” all’uopo costituita (c.d. “newco”).

L’obiettivo economico rappresentato era quello di pervenire a un diverso assetto partecipativo della S.r.l., con l’ingresso nella relativa compagine sociale di un nuovo socio, il recesso totale di taluni soci (soci “uscenti”) e il recesso parziale degli altri soci (soci “superstiti”), con la contestuale acquisizione del controllo da parte di un unico socio.

Al fine di poter raggiungere il suddetto obiettivo economico, sono state, quindi, prospettate le seguenti operazioni:

  1. la costituzione della “newco, partecipata soltanto da alcuni dei soci cedenti (i soci superstiti) – con sostanziale modifica delle percentuali di partecipazione – e da un nuovo socio;
  2. la cessione alla “newco” di tutte le quote di partecipazione detenute dai soci persone fisiche nella S.r.l., previa rivalutazione, con contestuale pagamento del corrispettivo pattuito mediante l’accensione di un debito bancario;
  3. la fusione per incorporazione inversa della “newco” nella S.r.l. controllata.

In merito, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che “nel caso in esame occorre operare una distinzione tra il recesso totale da parte dei soci uscenti e quello parziale da parte dei soci superstiti […]. La cessione delle partecipazioni, previamente rivalutate, detenute dai soci uscenti appare operazione fisiologica per la fuoriuscita definitiva dalla compagine sociale di Alfa da parte dei soci uscenti, non integrando perciò alcun vantaggio fiscale indebito. In relazione alla fattispecie prospettata, è infatti nella libera scelta dei soci uscenti recedere dalla società mediante il recesso atipico. […]

Differenti valutazioni occorre fare con riferimento ai soci superstiti […]. In questo caso, grazie all’articolata serie di operazioni prospettata, i soci superstiti si precostituiscono le condizioni per porre in essere un recesso c.d. “atipico” idoneo a conseguire un vantaggio fiscale. Tale vantaggio fiscale è rinvenibile nel risparmio d’imposta derivante dal mancato assolvimento della ritenuta a titolo d’imposta del 26% prevista ordinariamente sui redditi di capitale”.

Secondo l’Agenzia delle Entrate, quindi, le operazioni prospettate rappresenterebbero un numero di negozi giuridici superfluo, ridondante, il cui perfezionamento non sarebbe coerente con le normali logiche di mercato, risultando unicamente idonee a far conseguire un risparmio fiscale indebito ai soci superstiti, non essendo rinvenibili valide “ragioni extrafiscali non marginali”, anche di ordine organizzativo o gestionale, che giustifichino l’insieme dei negozi giuridici perfezionati.

I chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate in tale recente documento di prassi, nonché le tesi dalla stessa valorizzate nell’ambito delle attività accertative diffuse sul territorio, contrastano però con l’orientamento giurisprudenziale largamente prevalente, da ultimo condiviso anche dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 7359 del 17.03.2020, che ha negato, invece, la natura elusiva di tali operazioni.

Nell’ambito del giudizio di legittimità, infatti, la Corte di Cassazione ha stabilito che non può costituire una fattispecie di abuso di diritto il perfezionamento di una serie di operazioni riorganizzative a seguito delle quali un socio di minoranza aveva provveduto a cedere la propria partecipazione, previa rideterminazione del relativo valore di acquisto; tali operazioni, perfezionate nell’ambito di una ristrutturazione del gruppo, erano finalizzate a separare l’attività gestionale dalla proprietà del patrimonio aziendale e immobiliare e a favorire l’ingresso di nuovi partner nella compagine societaria.

L’Amministrazione finanziaria aveva ritenuto che fosse stata posta in essere un’operazione elusiva, priva di valide ragioni economiche non meramente marginali, per mezzo della quale il socio di minoranza avrebbe nei fatti incassato riserve di utili della società, dissimulandole con l’incasso del corrispettivo derivante dalla cessione della propria quota di partecipazione.

La Suprema Corte ha, tuttavia, respinto – con propria ordinanza – la tesi dell’Agenzia delle Entrate, confermando la liceità del comportamento tenuto dal contribuente, riconoscendo come non fosse stato perseguito un risparmio d’imposta che possa essere qualificato come “indebito” nell’accezione della norma anti-abuso, considerato che la rideterminazione del valore di acquisto delle partecipazioni era stata effettuata in applicazione di specifiche disposizioni di legge aventi dichiaratamente finalità agevolativa, alle quali il contribuente non può che avere libero e incondizionato accesso.

In tal senso, quindi, la Suprema Corte ha recepito, con propria ordinanza, il principio – ribadito dal Legislatore dell’articolo 10-bis, comma 4, L. 212/2000secondo cui il contribuente non è tenuto a condurre i propri affari in modo necessariamente “autolesionista”, nemmeno sotto il profilo fiscale, restando infatti indubitabilmente ferma “[…] la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”.

Tra le principali pronunce delle Commissioni Tributarie adite sulla peculiare tematica, che hanno ritenuto infondate le contestazioni dell’Amministrazione finanziaria, escludendo, quindi, l’esistenza di fattispecie di abuso del diritto, si segnalano inoltre la CTR Lombardia n. 2236 del 07.05.2018, la CTR del Piemonte n. 1463 del 17.10.2017, la CTP di Padova n. 48 del 22.02.2019, la CTP di Treviso n. 144 del 11.04.2018, la CTP di Forlì n. 89 del 23.04.2018, la CTP di Bergamo n. 576 del 28.11.2017, la CTP di Vicenza n. 696 del 12.10.2017 e la CTP di Vicenza n. 735 del 06.06.2016.

A fronte di un orientamento consolidato e avallato anche dalla Suprema Corte, pare strano, quindi, che l’Amministrazione finanziaria insista a sostenere ancora una tesi evidentemente “perdente” in giudizio.