Il lavoro sportivo dilettantistico e il testo unico sullo sport – I° parte
di Guido MartinelliIl nostro legislatore, ormai quasi quarant’anni fa, sulla spinta di un Pretore di Milano che aveva bloccato il c.d. “calcio mercato“, ritenendola attività in contrasto con le allora vigenti norme sul collocamento obbligatorio dei lavoratori, con la Legge 91/1981 ha iniziato a confrontarsi con le difficoltà connesse all’inquadramento del lavoro sportivo all’interno delle fattispecie codicistiche del lavoro subordinato (articolo 2094 cod. civ.) e del lavoro autonomo (articolo 2222 cod. civ.).
Tant’è che il disegno di legge originario aveva inquadrato tali prestazioni come “autonome“; il testo finale, invece, approvato dal Parlamento, come è noto, ha stabilito per gli atleti una presunzione di lavoro subordinato, fatte salve alcune residuali fattispecie, inquadrate come lavoro autonomo nella forma della collaborazione coordinata e continuativa, analiticamente elencate dal legislatore. La differenza tra le due venne individuata non tanto dalla subordinazione gerarchica quanto dalla intensità della prestazione.
Inoltre, pur considerandolo lavoro subordinato, il legislatore ha escluso per lo sport professionistico l’applicazione di una serie di istituti previsti tra gli altri dallo statuto dei diritti dei lavoratori, tipici del lavoro subordinato (tra cui il famoso articolo 18), incompatibili con la natura della prestazione sportiva (si pensi ad esempio alla durata a tempo indeterminato del contratto di lavoro).
La L. 91/1981 si pone, pertanto, sicuramente come “legge speciale” ma inquadra i lavoratori a cui si applica, sia pure con molteplici specialità, nell’ambito delle categorie generali del lavoro subordinato e, in via residuale, autonomo.
Se, nei desiderata originari, vi era sicuramente l’idea di far rientrare tutte le attività sportive onerose nel campo di applicazione di tale legge, presto ci si rese conto che la normativa approvata, redatta secondo le esigenze specifiche del mondo del calcio, con grandi difficoltà si sarebbe potuta applicare ad altre discipline (oggi hanno un settore professionistico, oltre al calcio, solo basket, ciclismo e golf).
Su queste intervenne il legislatore fiscale che, prima con la L. 80/1986 e, poi, successivamente, con la L. 133/1999, intervenendo sull’articolo 67 Tuir che disciplina i redditi diversi, inquadrò la disciplina fiscale dei compensi senza, però, entrare nel merito della qualificazione civilistica o, comunque, identificare quale fosse la “causa” di questo rapporto.
Ciò ha portato la Suprema Corte a scrivere quanto segue: “ …. Quale premessa di ordine metodologico occorre partire dalla nozione di attività sportiva dilettantistica. Nel nostro ordinamento non figura una definizione giuridica univoca di tale attività e, più in generale, di sport dilettantistico, la cui nozione si ricava per esclusione rispetto al concetto di attività sportiva professionistica che prevede l’esercizio di attività sportive in via continuativa e remunerata a titolo professionale, normativamente disciplinata dalla L. 91/1981 sul professionismo sportivo. In parallelo va aggiunto che la figura del lavoratore sportivo dilettante non forma oggetto di una disciplina giuridica compiuta, né nell’ordinamento sportivo, né in quello nazionale. Manca, infatti, uno specifico inquadramento sotto il profilo del diritto del lavoro mentre si rinviene la regolazione di taluni aspetti specifici, soprattutto nel settore del diritto tributario ….” (Corte di Cassazione, sentenza n. 602/2014).
Questo vuoto normativo portò, come conseguenza che, a partire dal 2000, sui compensi sportivi per attività dilettantistica non venisse più applicata alcuna ritenuta previdenziale e assicurativa in potenziale contrasto con la previsione del secondo comma dell’articolo 38 Cost..
In questo quadro si è inserita una giurisprudenza di riferimento assolutamente ondivaga (con la Cassazione che ha finora privilegiato la tesi della inapplicabilità della disciplina di esonero della contribuzione ai soggetti che lavorano nel mondo dello sport dilettantistico: ““.. gli istruttori o i maestri che tengano dei corsi in favore dei soci/clienti del sodalizio potrebbero essere regolarmente inquadrati nell’alveo della predetta normativa di favore (articolo 67 primo comma lett. m – n.d.r.) sempre che tali attività si svolgano nel contesto di un rapporto associativo che lega l’istruttore/maestro al sodalizio. Laddove, invece, si dovesse accertare che il compenso ricevuto da tali soggetti sia ricollegato o ricollegabile all’assunzione di un obbligo di fare, è evidente che la mancata partecipazione alla vita associativa del sodalizio o la ricezione di un compenso secondo pure logiche di mercato vanificherebbe la natura sportivo – dilettantistica di quella prestazione” – Cassazione, n. 31840/2014) a fronte della quale si è formata, invece, una consolidata prassi amministrativa che ha tratto spunto da alcune sentenze di Corti d’appello in favore della natura atipica del compenso sportivo per prestazioni lavorative nello sport dilettantistico.
La Corte d’Appello di Firenze (sentenza n. 683/2014), ha segnato l’inversione di tendenza da parte della Giurisprudenza.
Scrive, infatti, il Collegio giudicante: “.. la finalità perseguita dal legislatore è quella di realizzare un regime di favore a vantaggio delle associazioni sportive dilettantistiche esentando dal pagamento dell’imposta (e della contribuzione) quanto queste corrispondano in forme di rimborsi forfettari o di compensi non solo agli atleti ma anche a tutti coloro che collaborino con mansioni tecniche o anche gestionali, al funzionamento della struttura riconosciuta dal Coni. Vi sottende, ovviamente, la necessità di incentivare questo tipo di attività e di alleggerirne i costi di gestione, sul presupposto della oggettiva valenza della funzione, anche educativa che consegue all’esercizio di attività sportive non professionistiche”.