In ambito transfer price è possibile concedere finanziamenti infruttiferi
di Marco BargagliL’ordinamento giuridico domestico contiene specifiche norme antielusive, introdotte dal legislatore con il precipuo scopo di contrastare fenomeni di pianificazione fiscale internazionale.
In tale senso, l’articolo 110, comma 7, Tuir contiene le disposizioni in materia di transfer price, prevedendo che: “I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono determinati con riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili se ne deriva un aumento del reddito. La medesima disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, secondo le modalità e alle condizioni di cui all’articolo 31-quater del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600”.
Nello specifico, il valore della transazione economica infragruppo deve essere determinato in base alle regole dettate dal Tuir nonché, a livello internazionale, seguendo le linee guida Ocse.
Tali disposizioni, complessivamente considerate, hanno la peculiare finalità di impedire il trasferimento (o travaso) di utili dall’Italia verso l’estero al di fuori delle normali condizioni di mercato, creando da un lato un’erosione della base imponibile e, dall’altro, una distorsione della libera concorrenza.
In buona sostanza, i prezzi dei rapporti infragruppo devono essere in linea con il “principio di libera concorrenza” enunciato dall’articolo 9 del modello Ocse di convenzione (c.d. arm’s length principle), in base al quale il prezzo stabilito nelle transazioni commerciali intercorse tra imprese associate deve corrispondere al prezzo che sarebbe stato convenuto tra imprese indipendenti per transazioni identiche o similari sul libero mercato.
La Corte di Cassazione, sezione Tributaria, con la sentenza n. 6656, depositata in data 06.04.2016, aveva già chiarito che grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare che un’operazione antieconomica, realizzata mediante transazioni effettuate con una società controllata o controllante estere, è riconducibile ad un maggiore reddito imponibile.
In merito, il Supremo Giudice, richiamando il consolidato orientamento giurisprudenziale espresso da parte del giudice di legittimità (cfr. ex multis, Corte di cassazione, sentenza n. 22023 del 13.10.2006 e Corte di cassazione, sentenza n. 11226 del 16.5.2007), ha affermato che l’onere di dimostrare che un’operazione economica realizzata all’estero con una società controllata o controllante sia riconducibile ad un maggior reddito imponibile è posto a carico dell’Amministrazione finanziaria.
Un tema di particolare importanza, affrontato nel tempo da parte della giurisprudenza di legittimità, riguarda la corretta determinazione delle condizioni economiche praticate nei prestiti o mutui infragruppo, soprattutto nell’ipotesi dei c.d. “finanziamenti infruttiferi” erogati tra imprese appartenenti allo stesso Gruppo internazionale.
Con la sentenza n. 7493 del 15.04.2016, gli Ermellini avevano sancito la rilevanza, ai fini della normativa sul Transfer Price, delle operazioni di finanziamento infruttifero poste in essere tra imprese appartenenti allo stesso gruppo.
Tuttavia la giurisprudenza di legittimità aveva in passato espresso un differente orientamento, ritenendo inapplicabile la disciplina sui prezzi di trasferimento infragruppo ai finanziamenti intercompany che non generavano interessi passivi (cfr. Corte di cassazione, sentenza n. 15005 del 17.07.2015).
I Supremi Giudici hanno anche affermato che:
- la prova gravante sull’Amministrazione finanziaria non riguarda la maggiore fiscalità nazionale ossia il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l’esistenza di transazioni intercorse tra imprese collegate ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale;
- incombe sul contribuente, sulla base delle regole ordinarie di vicinanza della prova ex articolo 2697 cod. civ., l’onere di dimostrare che tali transazioni siano intervenute per valori normali di mercato da considerarsi normali (Cassazione, n. 18392/2015).
Recentemente, sempre i Supremi Giudici di legittimità, sono ritornati sul tema dei finanziamenti infruttiferi concessi da un’impresa italiana nei confronti di una società estera, in correlazione con la normativa prevista in materia di transfer price (ordinanza n. 13850 del 20.05.2021).
Gli Ermellini hanno precisato che la normativa in rassegna non integra una disciplina antielusiva in senso proprio, ma è finalizzata alla repressione del fenomeno economico del transfer pricing (ossia lo spostamento d’imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti).
La prova gravante sull’Amministrazione finanziaria non riguarda la maggiore fiscalità nazionale o il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l’esistenza di transazioni, tra imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale.
Di contro, il contribuente dovrà dimostrare che tali transazioni sono intervenute a valori in linea con le quotazioni di mercato.
Nel recente rapporto Ocse pubblicato nel mese di febbraio 2020, riguardante le transazioni finanziarie, si ribadisce che nelle operazioni di finanziamento intercompany la corretta applicazione del principio di libera concorrenza è rilevante non soltanto nella determinazione del valore di mercato dei tassi di interesse applicati, ma anche per valutare se un’operazione di finanziamento debba essere effettivamente considerata un prestito o, in alternativa, un apporto di capitale proprio.
A livello domestico, la prassi amministrativa dell’Agenzia delle entrate (circolare AdE 6/E/2016) ha ritenuto che i “finanziamenti gratuiti infragruppo” possono anche avere cittadinanza nell’ordinamento, laddove sia dimostrabile che lo scostamento rispetto al principio di libera concorrenza sia dipeso da “ragioni commerciali” interne al gruppo connesse al ruolo che la controllante assume a sostegno delle altre società del gruppo.
Ciò posto, a parere della Suprema Corte, il giudice di merito non si è attenuto ai principi di diritto riguardanti l’oggetto della prova e il corretto criterio di ripartizione dell’onere della prova tra Fisco e contribuente.
In particolare, lo scrutinio del giudice doveva orientarsi sulla base di una duplice direttrice:
- verificare se l’Ufficio avesse o meno fornito la prova, ad esso spettante, che la controllante italiana aveva compiuto un’operazione di finanziamento a favore della controllata estera, quale legittimo presupposto della ripresa a tassazione degli interessi attivi del mutuo in base al tasso di mercato osservabile in relazione a finanziamenti aventi caratteristiche sufficientemente “comparabili” ed erogati a soggetti con il medesimo credit rating dell’impresa debitrice associata;
- accertare se la società verificata avesse dimostrato che il finanziamento infruttifero era dovuto a ragioni commerciali interne al gruppo o se, al contrario, risultasse che quel tipo di transazione (rectius il prestito di denaro), tra imprese indipendenti operanti nel libero mercato, era avvenuta a condizioni diverse.
In buona sostanza, ai fini fiscali non si può contestare direttamente la rilevanza del finanziamento infruttifero infragruppo in violazione alla normativa in materia di transfer price.
Occorre invece rigorosamente valutare i principi di diritto sopra illustrati (tra cui l’esistenza di un interesse economico della società del Gruppo multinazionale a ottenere e a remunerare il finanziamento) e applicare i criteri previsti in tema di riparto dell’onere della prova tra Fisco e contribuente.