Contestazione del credito Iva chiesto a rimborso legittima anche con il decorso dei termini di accertamento
di Angelo GinexIn tema di rimborso dell’eccedenza detraibile di Iva, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente in dichiarazione, che non derivi dalla sottostima dell’imposta dovuta, anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del potere di accertamento o di rettifica dell’imponibile e dell’imposta dovuta, senza che abbia adottato alcun provvedimento.
È questo il principio di diritto sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza, resa a Sezioni Unite, n. 21765, depositata ieri 29 luglio.
In seguito al fallimento di una società in accomandita semplice, una società per azioni acquisiva un credito Iva maturato antecedentemente alla dichiarazione di fallimento e richiesto a rimborso per cessazione dell’attività. L’Agenzia delle entrate negava il rimborso facendo leva sulla relazione del curatore, il quale aveva evidenziato operazioni sospette della società qualificate come «vere e proprie truffe», tali da connotare come illegittima l’intera attività sociale. La società per azioni veniva poi incorporata da un istituto di credito.
Veniva dapprima rigettato il ricorso da parte della Commissione tributaria provinciale e poi veniva respinto il successivo appello in quanto, secondo i giudici di secondo grado, l’attività d’impresa era estranea alle operazioni fonti delle poste detraibili dalle quali era scaturita la pretesa di rimborso. Veniva inoltre affermata l’inoperatività del termine di decadenza previsto dall’articolo 57, D.P.R. 633/1972.
La Banca, pertanto, proponeva ricorso per Cassazione, deducendo la violazione e falsa applicazione degli articoli 30 e 30-bis, 54 e 57 D.P.R. 633/1972, nonché degli articoli 113 e 115 cod. proc. civ., avendo, il giudice di appello, escluso l’applicabilità, nel caso in esame, dei termini di decadenza ai quali l’articolo 57, D.P.R. 633/1972 assoggetta l’azione del fisco.
Nel dare risposta al quesito sottoposto al proprio vaglio, le Sezioni Unite hanno colto l’occasione per un intervento chiarificatore di più ampio raggio, che ha portato alla cristallizzazione di un principio di diritto.
La questione controversa sulla quale è stato sollecitato l’intervento del Supremo Consesso è se si possa estendere all’Iva, nonostante le peculiarità di questo tributo, il principio secondo cui, in tema di rimborso dell’imposta, l’amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del proprio potere di accertamento senza che abbia adottato alcun provvedimento (cfr., SS. UU. 15.03.2016, n. 5069).
Innanzitutto, i giudici di vertice hanno rammentato che l’attività di controllo della dichiarazione è funzionale all’adempimento degli obblighi tributari, che nascono in dipendenza dell’insorgenza dei relativi presupposti, e non già a seguito dell’esercizio di quell’attività e dei conseguenti avvisi di accertamento (cfr., Cass. sent. 6.03.2021, n. 8602; Cass. sent. 1.07.2020, n. 13275; SS. UU. 9201/90).
Gli effetti dell’omesso esercizio del potere di accertamento e di rettifica della dichiarazione si producono sulla liquidazione che la dichiarazione ha operato da un lato sull’imponibile, dall’altro sull’imposta liquidata al lordo e al netto delle detrazioni, delle ritenute di acconto e dei crediti di imposta (cfr., Cass. sent. 13.11.2020 n. 25719; SS.UU. 9.05.2017, n.16692).
«In definitiva –afferma la Corte- quell’omesso esercizio si riverbera sul debito del contribuente, di modo che l’Amministrazione che sia decaduta dai propri poteri di accertamento e rettifica non può pretendere un’imposta maggiore di quella liquidata in dichiarazione.»
I giudici di legittimità hanno chiarito che il Fisco può contestare in ogni tempo il proprio debito, ossia la sussistenza del diritto al rimborso che non derivi dalla sottostima dell’imposta dovuta, mentre il contribuente può far valere l’errore di fatto o di diritto che abbia infirmato la propria dichiarazione e dal quale sia scaturita l’indicazione di un minor credito d’imposta.
Il credito che nasca, invece, come nella fattispecie in esame, dal coacervo delle poste detraibili che prevalgano sul debito e che quindi eccedano l’imposta liquidata, esiste in quanto ne sussistano i fatti generatori, sicchè non è sufficiente che sia esposto in dichiarazione, né è necessario che sia accertato dall’amministrazione (cfr. Cass. sent. 30.10.2018, n. 27580), motivo per cui «il rapporto dare-avere resta regolato dalla legge».
Come evidenziato dalla Corte, ciò comporta che, in ossequio alle regole ordinarie, il contribuente che intenda far valere la propria pretesa al rimborso deve assumersene l’onere probatorio: egli, chiedendo il rimborso di un credito a distanza di anni dalla maturazione del diritto, deve scegliere, riportandolo a nuovo di assegnare ad esso rilevanza ex novo in ciascuna delle dichiarazioni successive in cui lo espone.
Trattasi di quanto è avvenuto nel caso in esame laddove dal ricorso è emerso che il credito, antecedente al fallimento, derivava “dal riporto a nuovo” della dichiarazione di circa dieci anni prima dell’istanza di rimborso.
Il Collegio, dopo aver affermato che tali principi non subiscono temperamenti o deroghe per la natura armonizzata dell’Iva, anzi rinvengono conferme proprio dalla fisionomia di questo tributo e che sono in armonia ai principi fissati in materia dalla giurisprudenza unionale, ha rigettato il ricorso enunciando il principio di diritto suesposto.