La crisi di liquidità può costituire esimente per l’omesso versamento?
di Luigi FerrajoliCon la recentissima ordinanza n. 15415/2021, la Corte di Cassazione è tornata sul tema relativo alla possibilità, per l’impresa che si trovi in una condizione di insolvenza, che abbia determinato il mancato adempimento alle proprie obbligazioni tributarie, di invocare la crisi di liquidità quale causa di forza maggiore idonea a fungere da esimente per l’applicazione delle sanzioni scaturenti dall’omesso versamento delle imposte dovute.
Preliminarmente, nella citata pronuncia, la Suprema Corte osserva che l’articolo 5 D.Lgs. 472/1997, nel rendere applicabile in ambito tributario il principio generale stabilito dall’articolo 3 L. 689/1981, sancisce che, “ai fini dell’applicazione delle sanzioni, non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta anche la consapevolezza del contribuente, a cui deve potersi rimproverare di aver tenuto un comportamento, se non necessariamente doloso, quantomeno negligente. È comunque sufficiente la coscienza e la volontà della condotta, senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, che rileva, come esimente, solo se l’agente è incorso in un errore inevitabile, per essere incolpevole l’ignoranza dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza (Cassazione n. 2139/2020)”.
Per di più, le SS.UU. penali, con la sentenza n. 37424/2013, nello statuire che il reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, di cui all’articolo 10-ter D.Lgs. 74/2000, si colloca “in rapporto di progressione illecita” con l’articolo 13, comma 1, D.Lgs. 471/1997, in base al quale l’omesso versamento periodico dell’imposta entro il mese successivo a quello di maturazione del debito mensile Iva è punito con sanzione amministrativa, avevano già ulteriormente evidenziato che “Non può (…) essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta (…) di non far debitamente fronte alla esigenza predetta”.
Di conseguenza, l’illecito, la cui configurazione prevede quale requisito il dolo generico, si perfeziona con la decisione – assunta con consapevolezza – di non effettuare i versamenti dovuti, essendo irrilevante che l’impresa si trovi in stato di crisi e utilizzi risorse finanziarie per fronteggiare altre partite debitorie, aventi carattere di maggiore urgenza.
Tuttavia, la stessa Cassazione penale, con una successiva puntualizzazione (Cassazione, n. 10813/2014), ha in seguito ammesso l’astratta possibilità che vengano a crearsi situazioni che legittimino l’invocazione dell’assenza di dolo o dell’assoluta impossibilità di adempiere all’obbligazione tributaria, la cui valutazione è però di competenza del giudice del merito e, di conseguenza, insindacabile dal giudice di legittimità se adeguatamente motivata.
Secondo gli Ermellini, allo scopo di permettere al giudice del merito un tale esame, è indispensabile che il contribuente assolva i propri oneri di allegazione che, in relazione alla paventata crisi di liquidità, “dovranno investire non solo l’aspetto della non imputabilità a chi abbia omesso il versamento della crisi economica che ha investito l’azienda o la sua persona, ma anche la prova che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (non ultimo, il ricorso al credito bancario). In altri termini, il ricorrente che voglia giovarsi in concreto dell’esimente, evidentemente riconducibile alla forza maggiore, dovrà dare prova che non gli sia stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili”.
In definitiva, alla luce del citato recente orientamento della Suprema Corte, che ha reso applicabili alle sanzioni tributarie i principi maturati dalla giurisprudenza penale, in caso di omesso versamento delle imposte, al fine di beneficiare della non applicazione delle citate sanzioni, invocando quale causa di forza maggiore la crisi di liquidità, sarà onere del contribuente dimostrare, da un lato, la non imputabilità all’impresa dello stato di crisi e, dall’altro, che l’imprenditore non avrebbe potuto farvi fronte tramite il ricorso ad “idonee misure da valutarsi in concreto”.
Ne deriva che le sanzioni tributarie risulteranno applicabili qualora il contribuente abbia posto in essere una condotta “quantomeno negligente”, e che questi potrà beneficiare dell’esimente della forza maggiore solamente provando l’impossibilità di rinvenire in alcun modo la liquidità necessaria ad adempiere compiutamente e tempestivamente alle obbligazioni tributarie, pur avendo attuato tutte le possibili azioni, anche a detrimento del proprio patrimonio personale.