La responsabilità processuale aggravata del soccombente
di Caterina BrunoLa responsabilità aggravata del soccombente prevista dall’articolo 96 c.p.c. trova applicazione anche nel rito tributario in virtù del richiamo dell’articolo 1 D.Lgs. 546/1992 alle norme del codice di procedura civile.
La disposizione garantisce il rispetto delle regole di lealtà e probità delle parti nell’attivazione e partecipazione al processo, sanzionando colui che agisce o resiste con mala fede o colpa grave.
Secondo un diverso indirizzo interpretativo la norma configura una sorta di responsabilità extracontrattuale da articolo 2043 c.c. che sanziona l’illecito processuale di una delle parti costituite condannando a risarcire la controparte colui che abbia agito o resistito temerariamente.
I presupposti per l’applicabilità della disposizione in esame sono:
- la soccombenza totale della parte condannata ex articolo 96 c.p.c.: atteso che la previsione in commento non trova applicazione quando c’è parziale soccombenza e neppure nei casi di soccombenza virtuale della parte come in ipotesi di estinzione del giudizio o cessazione della materia del contendere;
- la sussistenza di mala fede o colpa grave in capo a colui che agisce o resiste in giudizio;
- l’insorgenza per la parte vittoriosa di un danno ulteriore rispetto al sostenimento dei costi del giudizio che trovano già ristoro con la refusione delle spese di lite.
L’aver proposto o resistito in giudizio temerariamente con mala fede o colpa grave si realizza quando la parte è consapevole dell’infondatezza della propria pretesa o difesa, ed abusa dello strumento processuale per meri fini dilatori ovvero con la mancanza di quel minimo di diligenza o prudenza necessarie per rendersi conto dell’infondatezza della propria pretesa e per valutare le conseguenze dei propri atti (Cass. SS. UU. n. 9912/2018).
Il Tribunale di Milano in una recente pronuncia di merito conclusiva di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, dopo aver rigettato l’opposizione e confermato il decreto ingiuntivo opposto ha riconosciuto il diritto del creditore opposto ad essere ristorato del maggior danno cagionatogli dalla condotta temeraria del debitore giudicando sussistenti i presupposti per la condanna della parte opponente ai sensi dell’articolo 96, comma primo, c.p.c. (cfr.: Tribunale di Milano Sezione XI, sentenza n. 2383/2022 del 16.03.2022).
In particolare il Giudice del merito da un lato ha ritenuto inconsistenti le ragioni dell’opposizione e dall’altro ha giudicato l’iniziativa intrapresa con la proposizione del giudizio di accertamento del credito, soprattutto alla luce della successiva condotta processuale dell’attrice, meramente dilatoria e caratterizzata quanto meno dalla colpa grave.
Nella fattispecie, infatti, alla proposizione dell’opposizione e partecipazione della parte opposta alla prima udienza non era seguita alcuna attività processuale né in fase istruttoria e tantomeno decisionale, di tal che il Giudice ha intuito la finalità meramente dilatoria dell’azione processuale intrapresa dall’opponente.
Ai fini della quantificazione del danno il Tribunale ha affermato: “va tenuto conto, da un canto, di quanto allegato dall’opposta in merito all’impiego del personale per la preparazione delle difese e, dall’altra, delle produzioni effettuate con la comparsa di risposta, che hanno reso necessarie la raccolta e la separata catalogazione delle lettere di vettura e il necessario coordinamento con la difesa tecnica”.
Con tale pronuncia il Tribunale ha confermato il principio secondo il quale anche il maggior danno lamentato dalla parte vittoriosa la cui liquidazione sia richiesta ai sensi del primo comma dell’articolo 96 c.p.c. deve essere provato, anche presuntivamente, mediante allegazioni che diano al giudice piena contezza del pregiudizio ulteriore patito dalla parte rispetto al mero sostenimento dei costi processuali.
Nel giudizio tributario tale pregiudizio, stante la natura immediatamente esecutiva dei provvedimenti amministrativi oggetto di impugnazione, può tradursi, dal lato del contribuente, nella necessità di dover drenare risorse dalla gestione ordinaria dell’attività per fronteggiare il pagamento di una pretesa erariale che a conclusione del giudizio si riveli macroscopicamente infondata; ovvero nella necessità di far ricorso a prestiti e/o finanziamenti; viceversa potrebbe darsi il caso che il contribuente nell’impossibilità di reperire le finanze sufficienti subisca nelle more della definizione del processo le azioni esecutive da parte dell’Amministrazione finanziaria traendone un pregiudizio anche sul fronte della propria reputazione economica ed affidabilità al credito.
Si tratta nelle delineate ipotesi di pregiudizi meritevoli di ricevere ristoro con la condanna al risarcimento del danno dell’Amministrazione resistente.
Diversa è l’ipotesi di attivazione della responsabilità aggravata ai sensi dell’articolo 96, comma 3, c.p.c., che a differenza di quella di cui ai precedenti commi, non richiede la domanda della parte né la prova del danno ben potendo il giudice ai sensi di tale comma procedere – anche d’ufficio – quando pronuncia sulle spese, alla liquidazione di un’ulteriore somma equitativamente determinata a titolo di risarcimento in favore della parte vittoriosa del processo.
Nel rito tributario il giudice di legittimità ha riconosciuto la possibilità per il contribuente di richiedere la condanna da “lite temeraria” affermando che la responsabilità processuale aggravata può derivare anche da una pretesa impositiva “temeraria”, in quanto connotata da mala fede e colpa grave (Cassazione, SS.UU. n. 13899/2013), richiedendosi, ai fini della sua sussistenza, la violazione di quel grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità di quella pretesa impositiva.
Con l’ordinanza n. 29017/2020 la Cassazione, ribadendo il principio per il quale l’eventuale condanna per responsabilità aggravata può derivare dalla manifesta infondatezza dell’imposizione fiscale applicata dall’ente pubblico ha giudicato meritevole di valutazione il profilo di responsabilità aggravata ex articolo 96, comma 3, c.p.c. dell’Amministrazione comunale che nonostante la manifesta infondatezza della propria pretesa aveva rifiutato il contraddittorio con la parte contribuente rigettando l’istanza di annullamento in autotutela e omettendo di costituirsi e partecipare al giudizio di primo grado, rinviando per il vaglio alla competente commissione di merito.