Dichiarazione infedele per chi omette di indicare la “penale”
di Angelo GinexIn tema di reati tributari, l’omessa indicazione in dichiarazione della penale trattenuta dal promittente venditore per la mancata stipula del definitivo, integra il reato di dichiarazione infedele ex articolo 4 D.Lgs. 74/2000 in quanto la suddetta clausola risarcisce la parte venditrice di un mancato guadagno che avrebbe generato redditi tassabili. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 23837 depositata ieri 21 giugno.
La fattispecie in esame prende le mosse dalla condanna inflitta dal competente Tribunale ad un contribuente per il reato di dichiarazione infedele, stante l’omessa indicazione in dichiarazione di una somma di denaro pari ad euro 800.000. Tale somma era stata trattenuta dal promittente venditore a titolo di penale in conseguenza dell’inadempimento del contratto preliminare da parte del promissario acquirente.
Più precisamente, il Tribunale riteneva che tale somma costituisse reddito imponibile ai fini Irpef e, come tale, avrebbe dovuto essere indicata in dichiarazione, concludendo per l’affermazione della responsabilità penale in ordine al reato di cui all’articolo 4 D.Lgs. 74/2000, con confisca dei beni nella sua disponibilità per un valore pari al profitto del reato.
Invece la Corte d’Appello di Messina riformava parzialmente la sentenza di primo grado, dichiarando di non doversi procedere nei confronti dell’imputato perché il reato ascritto risultava estinto per prescrizione e confermava la confisca limitatamente alla somma di denaro oggetto di sequestro.
L’imputato proponeva ricorso per cassazione affidato a due motivi di doglianza con i quali lamentava, ai fini che qui interessano, la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato contestato.
In particolare, questi contestava che i giudici di appello avessero confermato la valutazione operata dal Tribunale senza determinare la natura del corrispettivo versatogli in sede di stipula del contratto preliminare, né tantomeno considerare se questo fosse qualificabile in termini di caparra confirmatoria, clausola penale o caparra penitenziale, al fine di ritenerlo reddito assoggettabile ad imposizione diretta.
Inoltre, lamentava che non si era tenuto conto del fatto che la somma era stata percepita dalla persona fisica, la quale aveva agito nell’ambito della propria sfera privatistica, e che essa, vista anche la natura del compendio immobiliare non in grado di generare plusvalenze tassabili, non costituiva reddito tassabile, non essendoci alcun incremento di ricchezza.
Ebbene la Corte di Cassazione, operando un richiamo ad alcuni precedenti di legittimità in materia di caparra confirmatoria, ha affermato che la doglianza avanzata risulta palesemente infondata.
Innanzitutto essa ha osservato che, in caso di regolare adempimento del contratto preliminare, la caparra è imputata sul prezzo dei beni oggetto dei definitivi, assoggettabili ad Iva, andando ad incidere sulla relativa base imponibile e, prima ancora, ad integrare il presupposto impositivo dell’imposta (cfr., Cass. Sent. n. 17868/2021; Cass. Sent. n. 7340/2020; Cass. Sent. n. 3736/2019).
I giudici di vertice hanno poi precisato che in caso di esenzione dall’Iva, non è escluso che la somma trattenuta a titolo di risarcimento forfettario per l’inadempimento dell’obbligo di stipula del contratto definitivo rientri nel concetto di “reddito prodotto”. Si è rammentato che l’inquadramento della clausola penale, difatti, rientra pienamente nel disposto dell’articolo 6, comma 2, Tuir e che anche l’introito della somma prevista da questa prevista, viene considerata reddito per la componente risarcitoria del mancato guadagno (il criterio utilizzato è quello dell’attitudine a produrre reddito della prestazione principale rimasta ineseguita).
Conseguentemente, si è rilevato che la clausola penale è assoggettabile ad imposizione diretta, in quanto la prestazione principale rimasta ineseguita (cessione dell’immobile) avrebbe costituito reddito ai sensi dell’articolo 67 Tuir (cfr., Cass. Sent. n. 11307/2016).
Sulla scorta di ciò, quindi, la suprema Corte ha affermato che nel caso di specie, «la somma incamerata dall’imputato costituiva il risarcimento di proventi che, per loro natura, avrebbero generato redditi tassabili per un soggetto privato, con il conseguimento di una plusvalenza ai sensi dell’articolo 67 del Tuir».
In conclusione, ritenuto che la Corte d’appello avesse correttamente ritenuto integrato il reato di dichiarazione infedele, ha rigettato il ricorso proposto dal reo.