Nuove regole per l’agevolazione prima casa degli emigrati
di Roberto CurcuL’appartenenza dell’Italia alla Unione Europea comporta che le norme che vogliono agevolare i cittadini italiani rischiano di essere considerate discriminatorie rispetto ai cittadini di altri Paesi membri, e debbano quindi essere abrogate per violazione del Trattato UE.
Questo è il caso che interessa l’agevolazione prima casa, disciplinata nel testo unico dell’imposta di registro, ma che esplica i propri effetti anche ai fini Iva, delle imposte ipotecarie e catastali (dovute in particolare in sede di donazione e successione), e delle imposte sui finanziamenti a medio e lungo termine.
L’agevolazione prima casa è prevista qualora vi siano degli specifici requisiti, tra cui che l’immobile non sia accatastato o accatastabile in classi A1, A8 o A9, che l’agevolazione sia usufruita solo una volta, e che l’immobile abbia una certa “ubicazione”.
In particolare, l’immobile deve essere ubicato innanzitutto in un comune in cui l’acquirente non abbia altri immobili, e poi – come regola generale – l’edificio deve essere ubicato nel comune dove l’acquirente ha la residenza, oppure dove intende spostarla entro 18 mesi dall’acquisto.
Tale ultima condizione, di possesso della residenza nel comune dove è ubicato l’immobile, è derogata in specifiche fattispecie, tra cui una riguarda il personale delle forze armate e di quelle di polizia, che possono avere l’immobile agevolato in qualunque comune italiano (data la loro “mobilità” imposta spesso per motivi di lavoro), e l’altra riguarda i soggetti emigrati.
La norma in vigore fino a pochi giorni fa prevedeva due deroghe: la prima riguardava i soggetti di qualunque nazionalità che, se emigrati all’estero per motivi di lavoro dipendente, potevano acquistare una abitazione nel comune in cui ha sede o esercita l’attività il proprio datore di lavoro. La norma intendeva agevolare quindi i soggetti inviati all’estero dal proprio datore di lavoro, non poneva limiti alla nazionalità di tali soggetti, ma limitava i comuni in cui tali soggetti potevano acquistare l’abitazione, che dovevano essere connessi con quelli del proprio datore di lavoro.
La logica della norma è comprensibile, e riguarda quei soggetti inviati temporaneamente all’estero dal proprio datore di lavoro e che intendevano acquistare un immobile in vista di un ritorno in Italia, sempre presso lo stesso datore di lavoro.
La seconda eccezione riguardava i cittadini italiani emigrati all’estero (non necessariamente per motivi di lavoro), i quali potevano acquistare l’immobile in qualunque comune del territorio italiano.
In sostanza, se colui che trasferiva la residenza all’estero aveva la cittadinanza italiana, poteva acquistare un immobile in qualunque comune italiano, usufruendo dell’agevolazione prima casa.
Volendo esemplificare, un Mario Rossi, italiano, nato e sempre stato residente a Milano, e trasferito a Monaco per motivi di lavoro, avrebbe potuto acquistarsi la casa (non di lusso!) sul lago di Garda usufruendo dell’aliquota Iva del 4%. Oppure, caso forse più frequente, poteva usufruire dell’agevolazione prima casa in sede di successione, con riferimento ad un immobile ereditato.
La seconda deroga sopra vista, quindi, ancorava l’applicazione dell’aliquota ridotta al fatto che l’acquirente fosse di nazionalità italiana. Per intenderci, Karl Meyer, collega di Monaco di Mario Rossi, cittadino tedesco, che avesse voluto acquistare la stessa casa sul lago di Garda, avrebbe pagato Iva al 10%.
Dopo anni che si trascina la procedura di infrazione, il legislatore ha deciso di modificare la norma sopra vista con l’articolo 2 D.L. 69/2013, in vigore dal 14 giugno 2023.
Da tale data, non esiste più nessuna agevolazione legata alla cittadinanza, ma per i cosiddetti emigrati all’estero è prevista la possibilità di usufruire dell’agevolazione prima casa solo quando l’emigrazione sia dovuta a motivi di lavoro, e solo se si vi è stata residenza o è stata svolta l’attività in Italia per almeno cinque anni.
Inoltre, l’immobile sul quale possono fruire dell’agevolazione prima casa deve essere ubicato, alternativamente, nel comune di nascita, oppure in quello in cui si aveva la residenza o si svolgeva la propria attività prima del trasferimento.
La norma, chiaramente, fa nascere molti dubbi, vuoi sull’assenza di un regime transitorio, vuoi perché non è chiaro come intendere il concetto di trasferimento all’estero per motivi di lavoro; con la nuova disposizione, infatti, il cittadino italiano con più di cinque anni di residenza in Italia, emigrato all’estero, ha possibilità di usufruire dell’agevolazione per un acquisto o una successione/donazione in Italia, solo se il trasferimento all’estero è avvenuto per ragioni di lavoro.
La questione potrebbe interessare coloro che si sono trasferiti per motivi di studio, e durante gli studi hanno svolto dei lavoretti (baristi, baby sitter, ecc…), o coloro che hanno fatto passare un brevissimo periodo di residenza in Italia tra la fine degli studi all’estero ed un lavoro all’estero, o – ancora – a coloro che sono andati a studiare all’estero ed hanno iniziato a lavorare all’estero senza mai aver fatto ritorno in Italia; anche tali soggetti, infatti, potrebbero cercare di sostenere che lo studio in un certo ateneo estero era funzionale ad un definitivo trasferimento all’estero per motivi di lavoro.