9 Novembre 2023

L’ammissibilità documentale in appello

di Luigi Ferrajoli
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La scheda di FISCOPRATICO

Argomento di particolare interesse riveste, nel contenzioso tributario, l’ammissibilità della produzione in sede di appello di documenti, anche se di formazione anteriore al giudizio di primo grado.

La questione è disciplinata dall’articolo 58, D.Lgs. 546/1992 (rubricato “Nuove prove in appello”), che prevede, al primo comma, che “Il giudice d’appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile”, per poi proseguire, al secondo comma, precisando che “È fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti”. Tale norma ha natura speciale per il processo tributario.

Nel processo civile ordinario, al contrario, l’articolo 345, comma 3, c.p.c., norma generale, prevede l’impossibilità di produrre nuovi documenti nel giudizio di impugnazione, stabilendo che “non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio”.

In altre parole, in ambito tributario la possibilità di produrre nuovi documenti in appello prescinde dalla impossibilità dell’interessato di produrli in prima istanza per causa a lui non imputabile: requisiti, invece, richiesti espressamente nel procedimento ordinario dall’articolo 345 c.p.c., ma non, viceversa, dall’articolo 58, comma 2, D.Lgs. 546/1992, che ha abilitato alla produzione di qualsivoglia documento in appello, senza restrizione alcuna e con disposizione autonoma rispetto a quella che – nel comma precedente – ha sottoposto a restrizione l’istanza di ammissione di altre fonti di prova.

Sul punto si è pronunciata anche la Corte di cassazione, la quale, investita della questione in varie occasioni, nel ribadire il principio giurisprudenziale ormai divenuto pacifico e consolidato, ha precisato ulteriormente che “in materia di produzione documentale in grado di appello nel processo tributario, alla luce del principio di specialità espresso dal D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 1, comma 2 – in forza del quale, nel rapporto fra norma processuale civile ordinaria e norma processuale tributaria, prevale quest’ultimanon trova applicazione la preclusione di cui all’art. 345 c.p.c. comma 3 (nel testo introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69), essendo la materia regolata dall’art. 58, comma 2 citato D. Lgs., che consente alle parti di produrre liberamente i documenti anche in sede di gravame, sebbene preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado ed anche alla parte rimasta in primo grado contumace(Cassazione n. 8927/2018).

Non solo. Il Giudice di legittimità ha ulteriormente puntualizzato che il principio sancito dal comma 2, dell’articolo 58, del citato D.Lgs. 546/1992, opera anche nell’ipotesi di deposito in sede di gravame, da parte dell’Amministrazione rimasta contumace in primo grado, dell’originario atto impositivo notificato, trattandosi di “una mera difesa, volta alla confutazione delle ragioni poste a fondamento del ricorso della controparte; là dove, il divieto di proporre nuove eccezioni ex art. 57 D.Lgs. 546/92 cit. concerne unicamente le eccezioni in senso stretto” (Cassazione n. 8313/2018).

Infatti, il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto dal comma 2 del citato articolo 57 D.Lgs. 546/1992, riguarda l’eccezione in senso stretto, ossia lo strumento processuale con cui il contribuente, in qualità di convenuto in senso sostanziale, fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa o estintiva della pretesa fiscale, ma non limita la possibilità dell’Amministrazione di difendersi dalle contestazioni già dedotte in giudizio, perché le difese, le argomentazioni e le prospettazioni dirette a contestare la fondatezza di un’eccezione non costituiscono, a loro volta, eccezioni in senso stretto.

Quanto sin qui osservato ha trovato conferma anche nelle recenti decisioni della Corte di Cassazione, in particolare con l’ordinanza n. 17454/2023, che ha ritenuto che l’irritualità della produzione documentale non possa compromettere il diritto di difesa della controparte, stante la facoltà della medesima di integrare i motivi di ricorso (laddove ciò sia reso necessario in conseguenza della nuova documentazione prodotta e non conosciuta prima del processo) anche nel giudizio di appello, essendo applicabile l’articolo 24, comma 2, D.Lgs. 546/1992 – in base al quale “L’integrazione dei motivi di ricorso, resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione, è ammessa entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla data in cui l’interessato ha notizia di tale deposito” – in virtù del rinvio previsto dall’articolo 61 del medesimo decreto, stante l’assenza di ragioni di incompatibilità ed anzi la necessità di estendere tale istituto funzionale all’esercizio del diritto di azione.