Quali i limiti alle “modifiche” al piano concordatario, nell’esecuzione dello stesso?
di Emanuele ArtusoIl 4.9.2024, il Consiglio dei ministri ha approvato il Correttivo-Ter al Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019), inserendo modifiche strutturali, che anelano a dirimere alcune tra le maggiori problematicità, finora emerse nell’applicazione del Codice. Tra queste, figura l’introduzione tout-court dell’articolo 118-bis, riguardante il tema delle modifiche al piano in ambito concordatario.
Ebbene, si prevede (in sintesi) che, se dopo l’omologazione del concordato in continuità aziendale si rendono necessarie modifiche sostanziali del piano per l’adempimento della proposta, l’imprenditore richiede al professionista indipendente il rinnovo dell’attestazione di cui all’articolo 87, comma 3, CCII, e comunica la proposta modificata al Commissario giudiziale. Il Tribunale, verificata la natura sostanziale delle modifiche rispetto all’adempimento della proposta, dispone che il piano modificato e l’attestazione siano pubblicati nel registro delle imprese e comunicati ai creditori.
Ad evidenza, ciò risponde ad una significativa esigenza manifestata dalla prassi operativa: infatti, il professionista (che si occupa di diritto della crisi) riscontra la necessità di apportare modifiche al programma imprenditoriale, rispetto alle determinazioni contenute nell’originario piano concordatario, in particolare con riferimento alla fase successiva all’omologazione, ossia quella dell’esecuzione.
Ma, fino ad ora, qual è il limite che la normativa e l’esegesi dominante hanno consentito, rispetto a questi scostamenti? Ciò, anche al fine di meglio comprendere la novellazione e perimetrare le “modifiche sostanziali”.
L’articolo 87, CCII – non a caso, richiamato dallo stesso articolo 118-bis – distingue tra “proposta” e “piano”, prevedendo che il debitore presenti, insieme con la proposta, un piano dal contenuto ricco ed articolato; in estrema sintesi, si può riassumere che, da un lato, la proposta contiene la rideterminazione, nella “logica concordataria”, del coacervo di obbligazioni esistenti tra il debitore ed i suoi creditori, mentre – dall’altro lato – il piano reca le modalità di attuazione, vale a dire le azioni necessarie a generare le risorse in grado di onorare le obbligazioni concordatarie (Cassazione n. 22988/2022).
Il tema va, quindi, concretamente calibrato, differenziando tra proposta (con espressione icastica: cornice di base) e piano (contenuto che concretamente “riempie”, attua la cornice). In tale ottica, si può tentare di ricavare i limiti alla modificabilità della proposta concordataria, ponderando la natura contrattuale del concordato (per la quale, stando al noto brocardo, pacta sunt servanda), in uno al fatto che, a seguito dell’omologa, si integra una “conversione” dei diritti dei creditori, legittimati da lì in poi a pretendere solo quanto il debitore si è obbligato ad adempiere alla luce della proposta.
Più in dettaglio, nella fase pre-omologa, vige l’articolo 105, CCII, secondo cui le proposte concordatarie “possono essere modificate (n.d.a.: solo) fino a venti giorni prima della data iniziale stabilità per il voto dei creditori”.
Nella fase post-omologa, la possibilità di gestire l’azienda, anche tramite talune variazioni, rispetto alle determinazioni originarie, pare maggiormente percorribile. Distinguendo, tuttavia, tra proposta e piano, e rilevando – come detto – che la prima ossequia una tendenziale immodificabilità.
Ora, si pensi all’articolo 118, CCII, rubricato “esecuzione del concordato”, secondo cui il Commissario giudiziale sorveglia l’adempimento del piano e riferisce dei fatti dai quali possa trarsi un nocumento ai creditori, mentre il debitore è tenuto a compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla proposta di concordato. Inoltre, il Commissario giudiziale deve rilevare se il debitore non stia provvedendo al compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla proposta o stia ritardando in ciò. Nella fase che segue l’omologa, quindi, la disciplina si tara sull’adempimento della proposta che rappresenta, in effetti, (i) il fine ultimo dei creditori, (ii) e, sotto la lente contrattualistica, la soddisfazione del sinallagma dell’accordo concordatario.
Da ciò trova fondamento l’articolo 119, CCII, laddove consente ai creditori ed al Commissario giudiziale di richiedere la risoluzione del concordato per inadempimento (comma 1) e prevede che il concordato non si può risolvere se l’inadempimento ricopre scarsa importanza (comma 3). Insomma, questa disposizione fa assurgere ad obiettivo supremo l’adempimento del concordato, rendendo doveroso intervenire sul piano, laddove non più utile a far conseguire l’adempimento della proposta. In termini autorevoli, sul punto, vi è la Relazione Tematica della Corte di cassazione, 8.7.2020, n. 56, che non solo eleva a norma cardine l’odierno articolo 119, CCII, ma pure forgia una – per così dire – clausola generale, ossia che il soddisfacimento dei creditori rappresenta la causa concreta della proposta di concordato; di qui, ottenuta l’omologa, le modifiche al piano dirette a rafforzare la capacità di adempiere la proposta dovrebbero considerarsi dovute, più che consentite.
In definitiva, si dovrebbe reputare che nella fase esecutiva del concordato la gestione aziendale possa distaccarsi dal piano originario, per ottemperare alla proposta concordataria (proprio quest’ultima, costituendo l’oggetto dell’adempimento concordatario, dovrebbe rimanere sostanzialmente immodificabile).
Quale ultimo step, a concreto chiarimento del tema, si pongono le seguenti due domande.
La prima: le modifiche possono coinvolgere l’oggetto stesso dell’attività industriale?
La seconda: le modifiche possono trasformare il modello di concordato (ad esempio, dalla continuità alla prospettiva liquidatoria)?
Vediamo di fornire una ricostruzione argomentata, anche grazie alla giurisprudenza, ossia Trib. Milano, 17.11.2022, che stressa le previsioni dell’articolo 58, CCII, il quale contempla (e disciplina) l’intervento con modifiche sostanziali solo per gli accordi di ristrutturazione, concludendo che questa disposizione conferma a contrariis che, una volta raggiunta l’omologazione di uno strumento di regolazione della crisi, la proposta fatta ai creditori non è più, comunque, ulteriormente modificabile.
In effetti, la norma citata, ossia l’articolo 58, CCII, offre utili appigli esegetici. Ferma fino ad oggi l’inapplicabilità analogica di tale norma al mondo dei concordati – in quanto di carattere sostanziale, ma varrà poi quanto introdotto dal Correttivo-ter… – si deve, in sintesi, notare come essa imponga, nell’accordo di ristrutturazione, la predisposizione di una nuova attestazione, solo laddove le modifiche al piano risultino sostanziali. Linearmente, ne deriva che modifiche non sostanziali, in ogni caso funzionali all’adempimento, non sottostanno ai rigidi vincoli appena enunciati.
Da qui, tentando di reperire un principio generale (quindi valido anche per il mondo dei concordati), ne consegue che proprio come nell’articolo 58 il Legislatore ha ritenuto di non dover regolare le modifiche non sostanziali, il medesimo principio dovrebbe valere anche per l’ambito concordatario, dovendosi le stesse reputare quindi ammissibili (e non bisognose di copertura normativa ad hoc).
Cristallizzato ciò (ossia: si possono apportare modifiche non sostanziali al piano) e tentando di risolvere la prima domanda, non pare consentito stravolgere così tanto l’attività sino a mutarne l’oggetto “a monte”: diversamente, si darebbe luogo ad un mutamento radicale del sistema di rischio “a valle”, che inficerebbe il consenso già prestato dai creditori su altra “cornice”.
Quanto alla seconda domanda (il passaggio da un concordato in continuità a quello liquidatorio, o viceversa), si pensi, ad esempio, alla portata della sentenza (Cassazione n. 22988/2022), secondo cui se cambia la logica di superamento della crisi, ne viene travolta la proposta originaria (tanto da rendere necessari un nuovo controllo di ammissibilità da parte del Tribunale, una rinnovazione dell’attività di valutazione dell’attestatore, e soprattutto una nuova votazione da parte dei creditori, in quanto non possono più fare affidamento sull’assetto originario). Pare, quindi, di capire che, secondo la Suprema Corte, il mutamento del modello di gestione della crisi sia riconducibile ad una modifica della proposta piuttosto che del piano, per l’effetto non consentito.
Le argomentazioni qui offerte paiono sposarsi perfettamente con la novellazione normativa sopra riassunta e con la ratio legislativa, dato che nella Relazione Illustrativa si chiarisce che la disposizione intende colmare un vuoto normativo, dettando la disciplina delle ipotesi in cui si renda necessaria una modifica del piano nella fase esecutiva del concordato, proprio in maniera analoga a quanto previsto per gli accordi di ristrutturazione dall’articolo 58 (insomma, allineando le due discipline); per contro, secondo la Relazione, la proposta non può essere modificata.
In altri termini, valorizzando il già esistente articolo 58, CCII, vengono previste specifiche e rigorose guarentigie formali per le modifiche sostanziali al piano nel concordato preventivo, altresì ribadendo che la proposta non può essere cambiata.