Dall’Albania una spinta alla modernizzazione dell’Iva
di Roberto CurcuIl caso del centro di prima accoglienza in Albania, con le sentenze e le successive polemiche, ha portato a conoscenza della maggioranza degli italiani – anche coloro non esperti di Diritto – che l’Italia è un Paese aderente (anzi, fondatore…) dell’Unione europea, e che questa appartenenza porta ad avere degli obblighi giuridici, quali il rispetto delle norme unionali (o comunitarie che dir si voglia). Considerato questo attuale e vivo interesse verso il diritto comunitario, il momento potrebbe essere quello giusto per fare un check della nostra normativa Iva, la quale deve essere “armonizzata” e, quindi, è particolarmente sensibile a ciò che succede in Europa.
La questione, che ha portato alle polemiche connesse ai casi dei migranti trasferiti in Albania, non è così semplice da capire, da un punto di vista giuridico. A complicare la comprensione della questione – per i non esperti di diritto comunitario – è che apparentemente ad essere violata è una sentenza della Corte di Giustizia Europea, e che in base a questa presunta violazione abbiamo avuto dei giudici che hanno chiesto alla stessa Corte di Giustizia Europea di pronunciarsi, altri che hanno direttamente disapplicato la normativa nazionale, e queste richieste e queste disapplicazioni sono avvenute dopo pochi giorni di vita della norma.
La spiegazione, molto semplicistica, della questione va divisa in due passaggi. Il primo passaggio è che vi sono norme del diritto comunitario che sono “più importanti” rispetto a quelle nazionali, e quando queste ultime sono incompatibili con le prime, vanno disapplicate. La seconda questione è che spetta in primo luogo al legislatore degli Stati membri non fare norme incompatibili con quelle europee e correggere tempestivamente quelle dichiarate o palesemente incompatibili, ma sia la pubblica amministrazione (tra le quali c’è anche l’Agenzia delle entrate), sia il giudice, possono – anzi hanno il dovere – di disapplicare la norma nazionale incompatibile con quella comunitaria. Quando hanno il dubbio che la norma nazionale possa essere incompatibile col diritto comunitario, l’ordinamento europeo prevede che la Corte di Giustizia può essere chiamata in causa dal giudice per pronunciarsi a riguardo. La Sentenza delle Corte di Giustizia, quindi, tecnicamente non decreta un vincitore ed un vinto, ma dà una interpretazione autentica della norma comunitaria, e quindi gli strumenti per l’eventuale disapplicazione di tutte le norme nazionali incompatibili. Da un punto di vista giuridico, quindi, la sentenza della Corte di Giustizia Europea ha l’efficacia della norma europea che sta interpretando.
La prima questione che si può, quindi, capire – e da qui fare dei parallelismi con l’Iva – è che la Sentenza della Corte di Giustizia, fornendo una interpretazione della norma europea, di fatto dà mandato a disapplicare tutte le norme degli Stati membri che sono incompatibili, e non solo quella dello Stato dal quale è nata la sentenza; nei casi oggetto di cronaca, la normativa italiana è “sotto accusa” in quanto potenzialmente incompatibile alla luce di principi emersi in una causa che era nata in Repubblica Ceca, ma ad esempio sull’Iva la nostra Amministrazione finanziaria ha fornito una interpretazione eurocompatibile all’articolo 8, d.p.r. 633/1972 (il quale non è mai stato modificato), a seguito di una causa nata in Ungheria. La questione – lo ricordiamo – aveva ad oggetto il fatto che per la normativa nazionale una merce uscita dalla UE con trasporto a cura del cessionario dopo i 90 giorni era e restava assoggettata ad Iva, mentre la Corte ha dichiarato questa cosa incompatibile e quindi disapplicabile.
Parlando del Paese magiaro, evidenziamo che l’Ungheria, negli ultimi 5 anni, ha interpellato la Corte di Giustizia in tema di Iva, portando il giudice a pronunciarsi con sentenza in 17 casi; la Romania 26 volte, la Polonia 21 e la Germania 34. L’Italia ha interpellato la Corte, la quale si è pronunciata con sentenza, solo in 3 casi, nei quali ne è emersa l’incompatibilità della normativa sulle società non operative del 1994, la norma del 1988 sui distacchi di personale, ed una “non norma” riguardante la responsabilità Iva dei rappresentanti doganali.
Nonostante sui piccoli numeri sia poco corretto fare statistiche, vediamo che dall’Italia interpelliamo in rari casi la Corte di Giustizia, quando lo facciamo la Corte dà ragione al contribuente, ma ciò succede 30 anni dopo che la norma incompatibile ha danneggiato gli operatori economici italiani. Volendo citare altri casi “famosi”, pensiamo alla sentenza del 2017 che ha portato a modificare l’articolo 26 in tema di recupero dell’Iva in caso di procedure fallimentari, o a quella del 2017 che ha portato a modificare l’articolo 9 per la non imponibilità dei trasporti in importazione; andando ancora più indietro, potremmo pensare alla detrazione Iva sulle auto, alle sanzioni sul reverse charge dove l’Italia adeguò la normativa al principio di proporzionalità dopo che due sentenze in cui era coinvolta rimarcarono l’incompatibilità della normativa nazionale; tra la prima sentenza e la modifica normativa passarono 8 anni, all’interno dei quali qualcuno – in Agenzia – riteneva coerente con il principio di proporzionalità applicare una sanzione del 100% dell’imposta “non evasa” ad errori che non avevano comportato evasione, come l’errore nel reverse charge senza frode.
Le incompatibilità della disciplina Iva e delle relative norme sanzionatorie – ad avviso di chi scrive – non sono poche, e quindi è auspicabile che nei giudizi contro gli avvisi di accertamento i contribuenti chiedano la disapplicazione delle norme interne ed i giudici, qualora sussistano dei dubbi, rinviino la questione alla Corte di Giustizia.