11 Dicembre 2024

L’accertamento definitivo della società preclude il diritto di contestazione del socio

di Luciano Sorgato
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La scheda di FISCOPRATICO

La Corte di cassazione, con l’ordinanza n 30568/2024, consolida il suo orientamento preclusivo in ordine al diritto del socio a contestare la legittimità dell’accertamento divenuto definitivo nei confronti della società partecipata. Nella citata ordinanza è testualmente riportato: “Per consolidata giurisprudenza di legittimità, qualora nei riguardi di una società di capitali a ristretta base partecipativa sia intervenuto un accertamento definitivo circa l’esistenza di utili “in nero” realizzati dal sodalizio, il giudizio tributario promosso dal socio ne rimane pregiudicato non potendo in esso prospettarsi doglianze riferibili a tale accertamento”.

L’indirizzo giurisprudenziale appare opinabile e scarsamente conciliabile con l’indeclinabile diritto di difesa (articolo 24 Cost.). A tal proposito, si deve sottolineare come, per chiara dottrina accademica (A. Contrino, “La definitività dell’accertamento della società non può mai essere opposta al socio che ha il pieno diritto costituzionalmente tutelato di avversare tutti i presupposti del proprio successivo atto impositivo”, in Rass Trib. n. 5/2013), neppure la cosa giudicata sostanziale nei confronti della società può legittimamente precludere al socio il diritto di interloquire in ordine a tutti i presupposti alla base del proprio atto impositivo e ciò in forza dell’Ordinanza n. 5/1998 non eludibile della Corte costituzionale.

In piena condivisione con quanto scritto dal citato autore, nel giudizio instaurato dal socio con l’impugnazione dell’atto di accertamento emesso nei suoi confronti, il ricorrente è il socio e la materia del contendere è costituita dal predetto atto impositivo che accerta un maggior reddito personale dello stesso. Orbene, è del tutto evidente che il socio è soggetto del tutto distinto dalla società di capitali previamente accertata e che egli ha il pieno diritto di fondare la difesa su tutti i presupposti del proprio successivo atto impositivo e ciò per almeno due fondamentali ragioni.

La prima è rinvenibile nel principio generale secondo cui il destinatario di ogni atto di accertamento ha il diritto di contestare tutti i presupposti di fatto e di diritto (nessuno escluso) alla base della ripresa fiscale mossa nei suoi confronti. La seconda ragione è che anche la definitività di un atto impositivo non può mai essere opposta ad un soggetto al quale l’Amministrazione finanziaria non abbia personalmente rivolto la sua specifica funzione impositiva, così come non può mai essere preteso che il giudicato faccia stato nei confronti di un terzo estraneo alle parti processuali.

E ciò è tanto più vero se si considera che, come messo in evidenza dalla stessa Corte di Cassazione, per le società di capitali (comprese quelle asserite a ristretta base partecipativa) non ricorre l’ipotesi del litisconsorzio necessario (affermato solo per le società di persone) e, dunque, il socio non è legittimato ad impugnare l’avviso di accertamento notificato alla società: l’unico soggetto nella condizione processualmente  potestativa di farlo è, infatti, la sola società destinataria dell’atto medesimo, per cui il socio non può essere ritenuto vincolato al punto di vedersi preclusa in radice ogni difesa, se la società non impugna il predetto avviso facendolo diventare definitivo.

Nel mettere in discussione il maggior utile accertato alla società, contestandone i relativi presupposti, il socio non impugna affatto l’atto di accertamento della società e non pretende che le situazioni connesse al debito tributario contestato alla medesima siano modificate. Il socio si limita legittimamente a contestare nel suo presupposto fondativo il proprio maggior reddito che sarebbe costituito da una parte dell’utile occulto accertato alla società: questa pretesa sussistenza di un utile in nero, da cui scaturisce il dividendo occulto contestato al socio, rappresenta, con tutta evidenza, un presupposto di fatto dell’accertamento a carico del socio e, dunque, è materia del giudizio relativo al suo atto impositivo che  non può non essere contestato in ogni sua parte proprio, ai sensi dell’ineludibile perentorietà prescrittiva dell’articolo 24, Cost.

A tale specifico proposito, non può essere considerato un caso che, nel nostro ordinamento giuridico, non vi sia traccia di una disposizione che, in modo espresso, disponga in ordine ad una tale preclusione, in quanto se esistesse, essa si porrebbe in insanabile contrasto con il citato articolo 24, Cost. A conforto di tale agevole conclusione, va segnalata – qualora ce ne fosse ancora bisogno – che prima della sentenza con cui le Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n° 14815/2008) hanno riconosciuto l’esistenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra  le società di persone e i soci della stessa, la Corte Costituzionale, con ordinanza 29.1.1998, aveva sancito, dettando una soluzione di principio del tutto conforme e persino sovrapposta a quella sopra esposta, che nell’ipotesi di società di persone deve sempre essere ritenuto consentito al socio, allorché gli sarà notificato l’atto impositivo relativo al suo reddito personale, la possibilità di tutelare i suoi diritti, contestando anche nel merito l’accertamento del suo reddito di partecipazione, nonostante l’intervenuta definitività dell’accertamento del reddito societario, pena la manifesta violazione dell’articolo 24, Cost.

Per la citata chiara dottrina (A. Contrino), il manifesto supporto della stessa Corte costituzionale consente di interdire ogni forma limitativa del pieno diritto di difesa processuale del socio. Neppure l’efficacia riflessa della cosa giudicata sostanziale può compromettere nei confronti del socio il ricorso alla piena tutela giudiziaria, dal momento che tale pieno diritto, oltre a derivare dai chiari principi processuali sopra esposti, è suggellato, sul piano degli effetti, dalla Corte costituzionale.