Obbligo d’esecuzione dei conferimenti e morosità del socio
di Valerio SangiovanniLa morosità del socio nell’esecuzione dei conferimenti deve essere affrontata dagli amministratori, nell’interesse sia degli altri soci sia dei creditori della società. L’articolo 2466, cod. civ., prevede la procedura che deve essere seguita. Se non riesce la vendita agli altri soci oppure a terzi, bisogna escludere il socio moroso. Occorre, inoltre, provvedere alla riduzione del capitale sociale. Nell’articolo si affrontano le tematiche connesse alla morosità del socio nel pagamento dei conferimenti.
La morosità del socio
Le società di capitali sono dotate, come del resto dice già la loro denominazione (“di capitali”), di un capitale minimo: per la Spa ammonta a 50.000 euro, mentre per la Srl a 10.000 euro. Vi è, poi, la figura dalla Srls semplificata, nella quale il capitale sociale può essere anche di 1 euro solo (così l’articolo 2463-bis, comma 2, cod. civ.).
Il capitale non deve essere versato tutto all’atto della costituzione della società, prevedendo la legge che possa essere versato in una misura variabile tra un minimo del 25% e un massimo del 100%. Più precisamente, si stabilisce che: “alla sottoscrizione dell’atto costitutivo deve essere versato all’organo amministrativo … almeno il venticinque per cento dei conferimenti i danaro … o, nel caso di costituzione con atto unilaterale, il loro intero ammontare” (così il comma 4 dell’articolo 2364, cod. civ.).
Se il conferimento viene versato solo in parte alla costituzione, gli amministratori possono poi – in qualsiasi momento – chiedere che i soci versino quanto manca per raggiungere il 100%. La percentuale mancante viene chiamata “decimi” (o, talvolta, “centesimi”) di capitale mancante[1].
Ragionamenti analoghi a quelli appena svolti, in riferimento alla costituzione della società, valgono anche per l’aumento di capitale. Se, nel corso della vita della società, viene deliberato un aumento di capitale, i soci vengono chiamati a effettuare nuovi conferimenti. Laddove i nuovi conferimenti non vengano pagati da uno o più soci, questi si trovano in una situazione di morosità e la società dovrà provare a recuperare il credito.
Sia per i conferimenti iniziali sia per quelli in sede d’aumento di capitale, potrebbe capitare che uno o più soci non paghino, in tutto o in parte, quanto promesso. Qual è il destino del socio moroso? Si tratta dei temi che si trattano in questo articolo[2].
La diffida da parte degli amministratori
Focalizzando l’analisi sul tipo societario Srl, per la sua diffusione e rilevanza pratica, la disposizione di riferimento è l’articolo 2466, cod. civ.. Al comma 1, la legge prevede che “se il socio non esegue il conferimento nel termine prescritto, gli amministratori diffidano il socio moroso ad eseguirlo nel termine di trenta giorni”.
Il primo passaggio consiste in una diffida inviata dagli amministratori ai soci morosi, diffida che si concretizzerà in una lettera raccomandata oppure in una pec. Bisogna lasciare un termine di 30 giorni per consentire al socio di reperire il danaro necessario a effettuare il versamento. Fino al decorso di 30 giorni non vi è morosità del socio; al decorso del termine, sussiste morosità del socio, e verranno attivati i passaggi successivi (vendita della quota del socio moroso agli altri soci o a terzi).
Il potere di deliberare e inviare la diffida al socio moroso spetta agli amministratori. Il comma 1 dell’articolo 2466, cod. civ., si esprime al plurale. Tuttavia, se vi è un amministratore unico, sarà questi a inviare la diffida. La procedura è un po’ più complicata quando vi è una pluralità di amministratori, in quanto deve essere assunta una delibera da parte del CdA.
La questione della necessità di una delibera da parte del CdA è stata affrontata, recentemente, dal Tribunale di Venezia[3]. Un socio viene diffidato dal CdA a versare i decimi mancanti. Dal momento che il socio non procede, la sua quota viene venduta agli altri soci. Il socio si rivolge allora al giudice veneziano, chiedendo il sequestro della sua quota che è stata venduta agli altri soci. Il Tribunale di Venezia accoglie la domanda e autorizza il socio a procedere al sequestro giudiziario della partecipazione oggetto di lite. Nel caso di specie, il CdA aveva assunto una delibera sulla questione del mancato pagamento dei decimi. Il giudice ritiene, tuttavia, la delibera troppo generica, in quanto essa prevedeva sì di diffidare il socio, ma non aveva fissato un termine entro il quale farlo. Inoltre, la delibera del CdA del 20 giugno era stata seguita pochi giorni dopo (il 30 giugno) da un’assemblea dei soci, alla quale il socio aveva regolarmente partecipato e votato[4]. La circostanza che al socio sia stato consentito di votare è un indice, afferma il Tribunale di Venezia, che non ci fosse morosità del socio. In conclusione, il sequestro giudiziario viene autorizzato. La vendita della partecipazione del 50% del socio era avvenuta a vantaggio degli altri 2 soci, ciascuno dei quali aveva rilevato il 25% del capitale.
Anche il Tribunale di Napoli si è occupato della diffida che gli amministratori devono inviare al socio moroso[5]. Un socio non effettua i conferimenti dovuti sulla propria quota e viene escluso dalla società. La sua quota viene venduta agli altri soci e il socio moroso agisce in giudizio contro la Srl, affinché sia dichiarata l’inefficacia della vendita della quota per difetto dei presupposti di legge per escluderlo dalla società. La società ha 4 soci, ciascuno con il 25% del capitale sociale. La Srl viene costituita con il capitale minimo di 10.000 euro, e i 4 soci ne versano il 50% (5.000 euro in tutto, ossia 1.250 euro ciascuno) al momento della costituzione. Successivamente, viene assunta una delibera assembleare con la quale si decide che i soci devono versare i decimi mancanti (e, dunque, gli altri 5.000 euro). Uno dei soci non versa i 1.250 euro di sua spettanza e la sua quota viene venduta agli altri soci. Il socio si difende sostenendo di non aver mai ricevuto la lettera di diffida da parte degli amministratori prevista dal comma 1 dell’articolo 2466, cod. civ.. Il giudice napoletano rileva che la vendita della quota del socio moroso agli altri soci è riconducibile alla vendita per conto di chi spetta. Secondo l’articolo 1515, comma 1, cod. civ., “se il compratore non adempie l’obbligazione di pagare il prezzo, il venditore può far vendere senza ritardo la cosa per conto e a spese di lui”. L’eccezione del socio moroso di non aver ricevuto la lettera di diffida viene rigettata dal Tribunale di Napoli: risulta, difatti, che la lettera è stata inviata in data 22 dicembre 2017 al socio e che è giunta al medesimo in data 29 dicembre 2017. La diffida era così formulata: si invita e diffida formalmente il socio a conferire “entro e non oltre il termine di 30 giorni da oggi le somme di cui al verbale di assemblea del 19 dicembre 2017. Perento tale termine gli amministratori provvederanno secondo le disposizioni di legge a ogni effetto di legge”. Vi è, dunque, la prova d’invio e ricezione della comunicazione. Avvenuta la messa in mora del socio, la decisione dell’organo amministrativo di procedere alla vendita della quota di partecipazione del socio moroso agli altri soci, in proporzione della loro partecipazione, anziché di promuovere l’azione per l’esecuzione dei conferimenti dovuti dal predetto socio, risulta legittima, trattandosi di scelta discrezionale tra 2 opzioni ugualmente valide e alternativamente percorribili. In conclusione, il Tribunale di Napoli ritiene che sia stato legittimo il ricorso alla procedura di vendita in danno del socio moroso, con conseguente esclusione dello stesso per non aver ottemperato all’obbligazione di liberare la parte di quota di partecipazione imputata a capitale e non versata nel termine perentorio di 30 giorni.
La vendita della quota del socio moroso agli altri soci
Se alla diffida inviata dagli amministratori non fa seguito alcun pagamento da parte del socio moroso, l’articolo 2466, cod. civ., prevede gli ulteriori passaggi cui sono chiamati i gestori. La legge stabilisce che: “decorso inutilmente questo termine gli amministratori, qualora non ritengano utile promuovere azione per l’esecuzione dei conferimenti dovuti, possono vendere agli altri soci in proporzione alla loro partecipazione la quota del socio moroso. La vendita è effettuata a rischio e pericolo del medesimo per il valore risultante dall’ultimo bilancio approvato” (comma 2 dell’articolo 2466, cod. civ.).
Se il socio non paga nel termine di 30 giorni, gli amministratori sono di fronte a un bivio: agire in giudizio contro il socio moroso per ottenere il pagamento, oppure vendere la sua quota. Gli amministratori faranno valutazioni di opportunità, nei singoli casi, su quale strada scegliere. Il fatto che il socio sia moroso, generalmente, farà venire meno la fiducia nei suoi confronti, cosicché è più probabile che la sua quota venga venduta.
Il comma 2 dell’articolo 2466, cod. civ., prevede che la quota del socio moroso possa essere venduta agli altri soci. Gli altri soci non hanno un obbligo d’acquistare la quota del moroso, hanno una mera facoltà in tal senso. Se i soci non acquistano, bisognerà trovare un terzo che compra: più precisamente, la legge prevede la vendita all’incanto, ossia a un terzo non identificato che sia il miglior offerente.
Il punto centrale è quantificare il valore della quota. Ci potrebbero essere radicali divergenze tra socio moroso venditore e altri soci acquirenti: il primo potrebbe volere delle somme eccessivamente elevate, mentre gli acquirenti potrebbero offrire delle somme eccessivamente basse. Per risolvere questo problema, il comma 2 dell’articolo 2466, cod. civ., detta un meccanismo automatico di determinazione del valore della quota: “per il valore risultante dall’ultimo bilancio approvato”. Trattandosi di un valore storico e certo, dovrebbero essere evitate liti tra il socio uscente e gli altri.
Il Tribunale di Torino si è occupato di un interessante caso di morosità del socio nel versare i decimi mancanti sui conferimenti e del successivo acquisto da parte di un altro socio[6]. La Srl è composta di 3 soci: i primi 2 soci hanno il 31,11%, mentre il terzo socio possiede il 37,78%. La società viene costituita con il capitale minimo di 10.000 euro, del quale viene versato solo il 25% (per complessivi 2.500 euro). Alcuni anni dopo la costituzione, uno dei 3 soci, che è anche amministratore, chiede a tutti i soci di versare i decimi mancanti, ossia i 7.500 euro mancanti, ciascuno in proporzione alla propria partecipazione al capitale. Uno dei soci non effettua il pagamento. L’amministratore diffida il socio e poi si reca davanti al notaio, il quale redige l’atto di vendita della quota del socio moroso all’altro socio (quello che era anche amministratore) verso il corrispettivo di 8.204 euro. Questo importo è quello risultante dall’ultimo bilancio approvato. Si tratta, come si diceva, del criterio di valutazione stabilito espressamente dalla legge. Il socio moroso ritiene, tuttavia, di aver ricevuto troppo poco corrispettivo per la propria quota, che in realtà varrebbe molto di più. Per questa ragione, agisce in giudizio nei confronti della società e del socio acquirente, chiedendo che gli venga liquidata una somma maggiore. La vendita della quota era avvenuta nel settembre del 2018 sulla base dell’ultimo bilancio approvato, che era quello di chiusura dell’esercizio 2016. Appena un mese dopo (nell’ottobre 2018) viene approvato il bilancio relativo all’esercizio 2017. Da questo bilancio il valore della quota del socio moroso risulta essere molto maggiore, ammontando a 38.384,45 euro. La contestazione mossa alla società e al socio acquirente è quella di avere ritardato l’approvazione del bilancio al fine di riconoscere al socio moroso un importo inferiore. In effetti, se si esamina l’articolo 2478-bis, comma 1, cod. civ., questa disposizione prevede che il bilancio: “è presentato ai soci entro il termine stabilito dall’atto costitutivo e comunque non superiore a centoventi giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale, salva la possibilità di un maggior termine nei limiti ed alle condizioni previsti dal secondo comma dell’articolo 2364”.
La norma richiamata prevede che: “l’assemblea ordinaria deve essere convocata almeno una volta l’anno, entro il termine stabilito dallo statuto e comunque non superiore a centoventi giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale. Lo statuto può prevedere un maggior termine, comunque non superiore a centottanta giorni … quando lo richiedono particolari esigenze relative alla struttura ed all’oggetto della società”.
Come emerge dal combinato di queste disposizioni, comunque il bilancio deve essere approvato entro 180 giorni dalla chiusura dell’esercizio. Nel caso affrontato dal Tribunale di Torino, l’approvazione avvenne, invece, a ottobre (e, dunque, certamente con ritardo rispetto al termine ultimo previsto di fine giugno). Il Tribunale di Torino, tuttavia, rigetta la domanda del socio moroso. Il giudice torinese dà peso al dato testuale dell’articolo 2466, cod. civ., secondo cui rileva l’ultimo bilancio approvato. Nel caso in esame, l’ultimo bilancio approvato era quello relativo all’esercizio 2016. Il socio moroso non può pretendere un importo maggiore rispetto a quello che gli è stato corrisposto per la quota. Ciò che potrebbe fare il socio moroso è azionare la responsabilità dell’amministratore per avere ritardato l’approvazione del bilancio, ma si tratta di una domanda diversa da quelle presentate.
La vendita della quota all’incanto
Il Legislatore preferisce che la vendita della quota del socio moroso venga tentata prima nei confronti degli altri attuali soci e poi – solo se i soci attuali non sono disponibili all’acquisto – nei confronti di terzi diversi dai soci. Più precisamente, si prevede che “in mancanza di offerte per l’acquisto, se l’atto costitutivo lo consente, la quota è venduta all’incanto” (comma 2 dell’articolo 2466, cod. civ.).
L’idea sottostante è quella di conservare la medesima compagine sociale, se appena possibile. La vendita agli altri soci non implica l’entrata in società di sconosciuti; essa produce solo l’effetto di incrementare la partecipazione detenuta dagli altri soci: se, ad esempio, i soci sono 3, con il 33,33% cadauno del capitale, rilevando la quota del socio moroso, gli altri 2 soci virtuosi salgono al 50% del capitale.
Se, però, i soci non vogliono acquistare la quota o non hanno i mezzi per acquistarla, si può procedere alla vendita all’incanto, ossia a un terzo sconosciuto miglior offerente. Il comma 2 dell’articolo 2466, cod. civ., fa riferimento all’atto costitutivo. La disposizione non è chiarissima. Va interpretata nel senso che lo statuto può vietare la vendita all’incanto, proprio al fine di evitare l’ingresso di terzi in società. La norma, in realtà, parrebbe dire che la vendita all’incanto è consentita solo in caso di espressa previsione statutaria in senso affermativo.
La vendita all’incanto, nell’ambito che si sta qui esaminando, discende da una previsione legislativa. Va inoltre considerato che negli statuti di Srl è molto frequente la clausola di prelazione, che prevede che – nel caso in cui un socio intenda vendere la propria partecipazione – deve prima offrirla agli altri soci. Il contesto del socio moroso è, però, diverso dal contesto della libera vendita della quota a terzi, quando non ci sono situazioni di morosità.
Una sentenza del Tribunale di Palermo si è occupata della relazione tra la morosità del socio e il diritto di prelazione previsto dallo statuto[7]. Gli amministratori di una Srl diffidano un socio, titolare del 49% del capitale sociale, a effettuare il versamento dei conferimenti ancora dovuti. Dal momento che il socio non adempie nel termine, l’assemblea della società delibera di escludere il socio e di ridurre il capitale sociale da 100.000 euro a 51.000 euro mediante annullamento della quota del socio moroso del valore nominale di 49.000 euro. Il socio escluso impugna la delibera sollevando alcune eccezioni. Il socio escluso contesta, in particolare, che non sarebbe stato rispettato il diritto di prelazione, nel senso che la quota – prima di essere annullata – avrebbe dovuto essere offerta agli altri soci. L’eccezione viene, però, rigettata del giudice palermitano. Il comma 2 dell’articolo 2466, cod. civ., prevede che gli amministratori “possono” vendere agli altri soci la quota del socio moroso. Non si tratta di un obbligo, bensì di una facoltà. Se, tuttavia, lo statuto prevede la clausola di prelazione, vi è un obbligo di offrire la quota del socio moroso agli altri soci. Il Tribunale di Palermo non accoglie comunque il motivo d’impugnazione, in quanto la violazione del diritto di prelazione dovrebbe essere fatta valere dagli altri soci, non dal socio moroso. Il socio che non paga i conferimenti perde il diritto di conservare la quota e non può esercitare alcuna prelazione. Per tacere del fatto che la prelazione può riguardare solo quote altrui, e non la propria. In conclusione, il giudice palermitano rigetta l’impugnazione e conferma, dunque, la legittimità della condotta degli amministratori e dell’assemblea, che – a seguito della morosità del socio – lo ha escluso dalla Srl, riducendo il capitale sociale.
L’esclusione del socio moroso rispetto ai conferimenti iniziali
L’articolo 2466, cod. civ., è basato su una serie di passaggi di progressiva gravità: prima si cerca di ottenere il pagamento dal socio, poi si cerca di trovare un acquirente della quota (sia esso un altro socio oppure un terzo), infine si esclude il socio dalla società, non rimanendo alternative rispetto alla morosità e alla mancanza di un contributo effettivo al capitale della società.
Più precisamente il comma 3 dell’articolo 2466, cod. civ., prevede che “se la vendita non può aver luogo per mancanza di compratori, gli amministratori escludono il socio, trattenendo le somme riscosse. Il capitale deve essere ridotto in misura corrispondente”. Se la vendita a soci o terzi si perfeziona, nulla quaestio: il danaro, non pagato dal socio moroso, è stato ugualmente percepito dalla società, grazie al pagamento di un altro socio o di un terzo. Se, però, non si trovano compratori, la questione si fa più complessa: si continua ad avere in società un socio che ha promesso di effettuare dei conferimenti, ma che in realtà non effettua. La società manca del capitale promesso: il capitale è insomma solo sottoscritto, ma non effettivamente versato.
La soluzione prevista dal Legislatore è quella di escludere il socio. L’esclusione è un meccanismo con il quale si pone fine al rapporto società-socio: il socio cessa di essere tale. La disposizione dice che la competenza spetta agli amministratori (e non all’assemblea). Parrebbe, insomma, essere una competenza di tipo gestorio. Di fatto, nella prassi, spesso è l’assemblea dei soci a deliberare l’esclusione del socio moroso.
A seguito dell’esclusione, rimangono, però, 2 profili che devono essere regolati:
- che succede dei versamenti parziali effettuati dal socio?
- come si riverbera il mancato incasso sul capitale della società?
Ambedue i profili sono disciplinati espressamente dalla legge. Il comma 3 dell’articolo 2466, cod. civ., prevede che le somme riscosse dalla società sono trattenute dalla medesima. Si tratta di una sorte di penale ex lege in capo al socio moroso per il fatto di non aver versato il capitale promesso. Si immagini che la società debba essere costituita con un capitale di 20.000 euro, con 2 soci, ciascuno al 50% del capitale: il conferimento di ciascuno ammonta a 10.000 euro. Si ipotizzi, altresì, che i soci versino inizialmente solo il 25% ciascuno. Se il socio Caio, che ha versato 2.500 euro (sui 10.000 totali), non versa successivamente i 7.500 euro mancanti, l’importo di 2.500 euro può essere trattenuto dalla società.
Il secondo aspetto è quello dei riflessi della morosità del socio e della sua esclusione sul capitale della società. Nell’esempio appena fatto, il capitale, astrattamente, ammonterebbe a 20.000 euro, ma è stato versato solo dal socio Tizio per 10.000 euro e dal socio Caio per 2.500 euro. Dal momento che il socio Caio viene escluso, la sua quota deve essere annullata, cosicché il capitale verrà ridotto a soli 10.000 euro. Nell’esempio fatto, la società è diventata da bipersonale a unipersonale.
L’esclusione del socio opera se non vengono effettuati i versamenti dei decimi mancanti, non se il socio non effettua versamenti dovuti ad altro titolo. Di questi profili si è occupato, recentemente, il Tribunale di Roma[8]. La Srl è composta di 2 soci, ciascuno al 50% del capitale. Più precisamente si tratta di una Srls, che è stata costituita con il capitale di 100 euro, sottoscritto interamente dai 2 soci per 50 euro ciascuno. A un certo punto, l’amministratrice della società, che è anche una delle 2 socie, chiede all’altra socia il versamento di 40.000 euro a titolo di asserito aumento di capitale. Poiché la seconda socia non provvede, viene assunta una delibera d’esclusione della seconda socia dalla Srls. La socia esclusa impugna la delibera assembleare. Il Tribunale di Roma accoglie l’impugnazione e dichiara l’invalidità della delibera assunta dalla Srls. In primo luogo, il giudice romano chiarisce che l’articolo 2466, cod. civ., sulla morosità del socio è applicabile anche alla Srls. Difatti, l’ultimo comma dell’articolo 2463-bis, cod. civ., prevede che “si applicano alla società a responsabilità limitata le disposizioni del presente capo in quanto compatibili”. Il Tribunale di Roma accerta che i conferimenti iniziali (seppure nella somma esigua di 100 euro) sono stati interamente eseguiti da ambedue i soci. In secondo luogo, il medesimo giudice romano accerta che non vi è stata alcuna delibera di aumento di capitale: non sussiste, dunque, alcun obbligo d’effettuare ulteriori conferimenti in capo ai soci.
Il socio moroso nell’aumento di capitale
Si è visto che il socio moroso, nell’esecuzione dei conferimenti iniziali, può essere escluso dalla società, se non si trova alcun compratore della sua quota. Vale, questa regola, anche in caso d’aumento di capitale?
La Corte di Cassazione ha risposto negativamente al quesito. Il mancato versamento in sede di costituzione della società va tenuto distinto dal mancato conferimento in sede d’aumento di capitale. Se il socio ha pagato i conferimenti iniziali e poi non paga i conferimenti in sede d’aumento di capitale, l’esclusione lo priverebbe, difatti, della qualità di socio, anche con riferimento ai versamenti originariamente e realmente effettuati. Si verificherebbe una situazione di sostanziale ingiustizia, in quanto l’inadempimento del socio riguarda solo i secondi versamenti (quelli nel contesto dell’aumento di capitale) e non gli originari versamenti (quelli in sede di costituzione della società).
Più precisamente, la Corte di Cassazione ha affermato che, nelle Srl, nel caso di mora del socio, nell’esecuzione dei conferimenti dovuti alla società a titolo di conferimento per il debito da sottoscrizione dell’aumento del capitale sociale, deliberato dall’assemblea nel corso della vita della società, il socio non può essere escluso, essendo egli titolare della partecipazione sociale sin dalla costituzione della società; pertanto, ferma la permanenza del socio in società per la quota già posseduta, l’assemblea deve deliberare la riduzione del capitale sociale solo per la misura corrispondente al debito di sottoscrizione derivante dall’aumento non onorato[9].
L’esclusione del socio moroso dal diritto di voto
Il comma 4 dell’articolo 2466, cod. civ., prevede che “il socio moroso non può partecipare alle decisioni dei soci”. Si tratta di una sanzione “interlocutoria” per il socio, finalizzata a spingerlo a effettuare i versamenti cui è tenuto. L’esclusione dal diritto di voto riguarda tutte le decisioni dei soci, come previste dall’articolo 2479, cod. civ..
La giurisprudenza ritiene che il socio moroso non possa votare (circostanza pacifica, risultando direttamente dalla legge), ma che egli possa comunque impugnare la delibera che viene assunta dall’assemblea. Il diritto di voto e il diritto d’impugnazione sono 2 distinti diritti. Nel regolare l’invalidità delle decisioni dei soci, il comma 1 dell’articolo 2479-ter, cod. civ., prevede che “le decisioni dei soci che non sono prese in conformità della legge o dell’atto costitutivo possono essere impugnate dai soci che non vi hanno consentito”. Se un socio non può votare, egli non consente alla decisione degli altri soci. Ne consegue che è legittimato a impugnare la delibera.
La questione del diritto d’impugnazione del socio moroso è stata affrontata dal Tribunale di Milano[10]. Un socio titolare del 23% del capitale di una Srl impugna la delibera assembleare d’approvazione del bilancio. Il giudice milanese ritiene che, benché sia moroso, il socio abbia diritto d’impugnare le delibere.
Più in generale, il socio moroso non perde gli altri diritti che gli competono in qualità di socio. La perdita dei diritti avverrà con l’esclusione dalla società, se si giungerà a questo esito. Finché è socio (benché moroso) ha tutti i diritti che gli competono in detta qualità (tranne, come detto, il diritto di voto).
La Corte di Cassazione ha in particolare affermato che il socio moroso di Srl non è ammesso, secondo il disposto dell’ultimo comma dell’articolo 2466, cod. civ., a esprimere il proprio voto nelle decisioni assembleari, ma non perde anche il diritto di controllo sugli affari sociali, ai sensi del comma 2 dell’articolo 2476, cod. civ., sino a che resti parte della compagine societaria in esito al procedimento d’esclusione intrapreso dagli amministratori[11].
[1] Si consideri, inoltre, la possibilità di sostituire i versamenti con una garanzia. Il comma 4 dell’articolo 2464, cod. civ., prevede che “il versamento può essere sostituito dalla stipula, per un importo almeno corrispondente, di una polizza di assicurazione o di una fideiussione bancaria con le caratteristiche determinate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri; in tal caso il socio può in ogni momento sostituire la polizza o la fideiussione con il versamento del corrispondente importo in danaro”. Tribunale di Roma, 3 settembre 2020, in Giurisprudenza commerciale, n. 3/2022, II, pag. 720 e ss., con nota di M. Facci, ha deciso che la sopravvenuta inefficacia o inoperatività della polizza a garanzia del conferimento è assimilabile alla mancata esecuzione dei conferimenti da parte del socio ai fini dell’applicabilità della disciplina di cui all’articolo 2466, cod. civ.. Qualora l’obbligo di conferimento sia stato assunto in sede di costituzione della società, conclude il giudice romano, e non sia possibile vendere la quota non liberata, l’inefficacia della polizza porterà all’esclusione del socio moroso per l’intera sua partecipazione.
[2] Sul socio moroso cfr. A. Bertolotti, “Bilancio di s.r.l. impugnato da socio moroso: alcuni spunti di riflessione”, in Giurisprudenza italiana, n. 8-9/2023, pag. 1866 e ss.; V. Bisignano, “Impugnazione ed efficacia dell’esclusione del socio moroso da s.r.l. in concordato preventivo, tra vecchio e nuovo diritto della crisi”, in Giurisprudenza italiana, n. 5/2023, pag. 1109 e ss.; M. Facci, “L’esclusione del socio moroso: un banco di prova per il principio di unitarietà della quota di s.r.l.”, in Giurisprudenza commerciale, n. 3/2022, II, pag. 733 e ss..
[3] Tribunale di Venezia, 11 aprile 2023, in giurisprudenzadelleimprese.it.
[4] Il comma 4 dell’articolo 2466, cod. civ., prevede che “il socio moroso non può partecipare alle decisioni dei soci”.
[5] Tribunale di Napoli, 28 ottobre 2022, in giurisprudenzadelleimprese.it.
[6] Tribunale di Torino, 19 luglio 2019, in giurisprudenzadelleimprese.it.
[7] Tribunale di Palermo, 6 luglio 2021, in giurisprudenzadelleimprese.it.
[8] Tribunale di Roma, 11 ottobre 2023, in giurisprudenzadelleimprese.it.
[9] Cassazione n. 1185/2020.
[10] Tribunale di Milano, 23 dicembre 2022, in giurisprudenzadelleimprese.it.
[11] Cassazione n. 1185/2020.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La rivista delle operazioni straordinarie”.