Il tema è stato, peraltro, trattato dall’Amministrazione finanziaria anche nella risposta a interpello n. 218/2022 in ordine al caso di un avvocato iscritto all’Aire dall’anno 2020, che dopo aver chiuso la partita Iva ed essersi trasferito all’estero, nel 2022 percepiva un compenso per una prestazione professionale svolta mentre era ancora professionalmente attivo in Italia.
Nella risposta all’indicato interpello, a fronte dell’istanza di chiarimenti di come procedere fiscalmente ai relativi obblighi di fatturazione, l’Agenzia delle entrate ha dapprima rappresentato che la cessazione dell’attività professionale, con conseguente cessazione della partita Iva, non può prescindere dalla conclusione di tutti gli adempimenti conseguenti alle operazioni attive e passive effettuate, secondo anche quanto disposto dal terzo e quarto comma dell’articolo 35, Decreto Iva, per poi concludere con il prospettare che i crediti maturati nell’esercizio abituale dell’attività professionale in un’annualità in cui l’Istante era ancora fiscalmente residente in Italia, ma incassati dopo il suo espatrio e la chiusura della relativa partita Iva, possono alternativamente essere tassati o nella dichiarazione relativa all’anno dell’espatrio, oppure, previo mantenimento della posizione Iva individuale fino all’ultimazione di tutte le operazioni fiscalmente rilevanti, essere fatturati e tassati nella dichiarazione relativa all’anno d’imposta in cui si realizza l’incasso del credito, in applicazione del principio di cassa.
Preliminarmente, in specifico ordine al regime Iva, come nell’articolo 6, comma 3, D.P.R. 633/1972 (rubricato: “Effettuazione delle operazioni”), venga letteralmente rappresentato che “le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo”, disponendo, in tal modo, la sovrapposizione temporale del fatto generatore dell’imposta (l’effettuazione materiale della prestazione di servizio) con l’esigibilità pecuniaria dell’Iva (l’insorgenza del diritto erariale alla percezione dell’imposta), per cui in mancanza del pagamento del corrispettivo, non solo sembrerebbe non decorrere il diritto alla percezione dell’Iva, ma non appare neppure conformarsi il presupposto sostanziale alla base del diritto medesimo (il fatto generatore dell’imposta). Il testo legislativo, nel suo manifesto significato letterale, interdice, quindi, qualsiasi scarto temporale tra il presupposto costitutivo alla base delle dinamiche disciplinari dell’Iva e l’insorgenza del diritto alla percezione statale dell’introito erariale. Ne deriva, sempre sulla base della rappresentata specifica stesura testuale della norma, che se il pagamento del corrispettivo della prestazione di servizio dovesse temporalmente sopravvenire alla cessazione dell’attività, viene a compromettersi la struttura ternaria dei presupposti alla base del governo comunitario dell’Iva (soggettivo, oggettivo e territoriale) e l’impossibilità di ritenere, quindi, derivabile per l’Erario, un qualsiasi diritto alla percezione dell’Iva (specificamente per mancanza del presupposto soggettivo a tale data).
Proprio per tale motivo, le Sezioni unite della Corte di Cassazione (n. 8059/2016) hanno intentato il sopravanzamento della mera lettera legislativa, testualmente affermando: “le indicazioni emergenti dalla disciplina comunitaria, proiettandosi ineludibilmente sulle norme nazionali che ne realizzano la trasposizione, ostano a che il DPR n.633 del 1972, art. 6 comma 3, sia letto, nel senso che per le prestazioni di servizio, il presupposto impositivo e, con esso, l’insorgenza dell’imponibilità ai fini iva, si verificano, non con l’esecuzione della prestazione, bensì, successivamente, con il pagamento del corrispettivo correlativamente pattuito”. Le indicate Sezioni Unite hanno, quindi, sottolineato il principio secondo cui il pagamento del corrispettivo si raccorda causalmente con il solo momento di esigibilità dell’Iva, senza incidere sul fatto generatore della medesima, derivando quest’ultimo unicamente dalla prestazione materiale del servizio, pena l’incompatibilità della norma nazionale con il diritto comunitario.
A fronte di tale incerto scenario, l’Agenzia delle entrate ha prospettato due opzioni: l’anticipata rilevanza Iva dei compensi non percepiti, o il suo raccordo con l’ordinario momento dell’incasso del corrispettivo, continuando a mantenere aperta la partita Iva. La prima opzione si connette all’articolo 6, comma 4, D.P.R. 633/1972, a mente del quale: “Se anteriormente al verificarsi degli eventi indicati nei precedenti commi sia emessa fattura … l’operazione si considera effettuata alla data della fattura …”. Alla luce di quanto sopra rappresentato, qualora, nel caso di cancellazione dal Registro delle Imprese, la società non dovesse procedere ad emettere le relative fatture, per le operazioni da essa già materialmente effettuate e, quindi, con il presupposto d’imposta già strutturalmente delineato secondo i descritti canoni comunitari e non potendo concepirsi per l’Iva, in raccordo con la sua precisa struttura ternaria di presupposti, alcuna successione sui generis nei confronti dei soci, sui quali non può venirsi a traslare lo status di soggetto passivo d’imposta, si verrebbe, istantaneamente alla cancellazione, a configurare il corrispondente illecito ai fini Iva per le operazioni non fatturate, con ribaltamento ai soci delle relative conseguenze patrimoniali in ossequio alle prescrizioni dei citati articoli 2495, cod. civ., e 36, D.P.R. 602/1973.