Nessun dietro-front possibile per il contribuente che ha sottoscritto l’adesione
di Arianna SemeraroMaurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365“Intervenuto l’atto di accertamento con adesione, l’originario atto impositivo non è più impugnabile, in quanto tale impugnazione implicherebbe la revoca unilaterale da parte del contribuente dell’accertamento con adesione da lui sottoscritto, non consentita dall’ordinamento. Il rapporto d’imposta tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente è regolato definitivamente dall’atto di accertamento con adesione, ma qualora il contribuente che l’abbia sottoscritto non versi nei termini l’importo dovuto, esso sarà regolato solo dall’atto impositivo originario”.
Questo il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione che, chiamata a pronunciarsi su un dirimente tema, ha deciso di dare continuità al proprio prevalente orientamento pur riconoscendo la fondatezza della tesi di parte privata e ammettendo una dubbia formulazione della normativa in esame.
Il caso
La vicenda trae origine dall’impugnazione di un avviso di accertamento da parte della contribuente, ancorché quest’ultima avesse già sottoscritto un accertamento con adesione non procedendo tuttavia al pagamento degli importi concordati.
In altre parole, la contribuente, dopo aver raggiunto un accordo con il Fisco circa la corretta determinazione dell’imponibile accertabile e dopo aver formalizzato tale accordo con la sottoscrizione dell’adesione, cambia idea e anziché procedere al regolare versamento del quatum dovuto (entro 20 giorni dalla sottoscrizione dell’adesione, anche solo della prima rata)[1], impugna l’originario avviso di accertamento.
Il ricorso subisce un brusco arresto da parte dei giudici di prime cure che lo ritengono inammissibile stante l’avvenuto perfezionamento dell’accertamento con adesione, che preclude al contribuente sottoscrittore ogni possibilità circa l’impugnazione dell’originario avviso di accertamento. Secondo i giudici di merito difatti il contribuente, dopo aver sottoscritto l’adesione, è vincolato a tale accordo non potendo più richiedere una revisione dell’originario atto emanato.
In altre parole, i giudici di prime cure, accogliendo l’eccezione dell’ufficio, hanno dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo che, dopo la sottoscrizione dell’atto di adesione, l’avviso di accertamento conserva efficacia solo a garanzia dell’integrale pagamento nei confronti dell’Erario delle somme dovute.
La pronuncia viene confermata anche in grado di appello.
Il ricorso in Cassazione – L’argomentazione del contribuente
La conferma della pronuncia di II grado da parte dei giudici di appello non ferma il contribuente che impugna la sentenza dinanzi ai giudici di piazza Cavour.
In particolare, parte privata affida l’intero ricorso a un unico motivo di gravame incentrato sul dato testuale della normativa che, secondo una puntuale interpretazione dovrebbe, senza dubbio alcuno (a parere di parte), smentire la tesi dei giudici di merito stante un dato che è inconfutabile: l’adesione si perfeziona solo al momento del pagamento delle somme dovute.
In particolare, la contribuente valorizza il disposto dall’articolo 9, D.Lgs. 218/1997, a norma del quale “la definizione si perfeziona con il versamento di cui all’articolo 8, comma 1, ovvero con il versamento della prima rata, prevista dall’articolo 8, comma 2”.
Non può difatti sottacersi che l’espressione usata dal Legislatore sembri alludere alla validità stessa dell’accordo, ossia alla compresenza di tutti gli elementi costitutivi, piuttosto che a un mero differimento degli effetti. Vedremo infatti che l’annotata pronuncia si discosta – forse consapevolmente – dal tenore letterale dell’articolo 9, D.Lgs. 218/1997, ritenendo che il versamento di quanto concordato “al di là delle espressioni letterali usate, rappresenta una condizione legale unilaterale di adempimento, posta nell’interesse della (sola) Amministrazione finanziaria”[2].
Il versamento del dovuto, secondo l’impostazione del ricorrente, sarebbe un elemento costitutivo della pretesa. In altre parole, non vi è accordo perfezionato e vincolante fintanto che il contribuente non paghi il dovuto.
Inoltre, la difesa fa notare come l’ultimo periodo del comma 4 dell’articolo 6, D.Lgs. 218/1997, nel disporre che “all’atto del perfezionamento della definizione, l’avviso di cui al comma 2 perde efficacia”, deporrebbe nel senso che anche per il contribuente l’avviso perde efficacia nel caso in cui vi sia il versamento di quanto dovuto in base all’accertamento con adesione, con la conseguenza che, se il versamento non avvenisse, il contribuente potrebbe ancora impugnare l’atto impositivo.
Un’ulteriore conferma – argomenta la contribuente – della sua tesi verrebbe dal disposto del comma 3 dell’articolo 8, D.Lgs. 218/1997 secondo cui: “entro dieci giorni dal versamento dell’intero importo o di quello della prima rata, il contribuente fa pervenire all’ufficio la quietanza dell’avvenuto pagamento. L’ufficio rilascia al contribuente copia dell’atto di accertamento con adesione”.
In particolare, secondo la contribuente quest’ultima disposizione normativa assume significato solo se interpretata nel senso di cui sopra, diversamente, se l’atto impositivo perdesse efficacia già con la sottoscrizione dell’atto di adesione – come sostenuto dai giudici di merito – non ci sarebbe logica alcuna nel consentire di ricevere la copia dell’atto di accertamento con adesione solo a versamento eseguito.
L’orientamento giurisprudenziale contrastante
Nonostante la stessa Corte di Cassazione abbia apprezzato la sintesi della difesa definendola intrisa di contenuti interessanti e certo non infondati, ha concluso – come anticipato in incipit – per il rigetto del ricorso, confermando la non impugnabilità dell’avviso di accertamento dopo la sottoscrizione dell’accordo di adesione nel caso in cui il contribuente non abbia proceduto al versamento del quantum concordato.
La Corte raggiunge tale conclusione nonostante abbia essa stessa preso atto dell’esistenza di giurisprudenza non sempre univoca sul punto, citando precedenti nei quali viene affermata l’impugnabilità dell’accertamento quando si sia verificata la situazione dell’accordo non perfezionato attraverso il pagamento.
Occorre tuttavia specificare, per onore di cronaca, che questa giurisprudenza minoritaria esiste ma ha prevalentemente risolto casi nei quali, dopo il ripensamento, il contribuente non aveva neppure impugnato l’atto di accertamento, aspettando invece la cartella di pagamento per proporre ricorso. Ricorso che ovviamente viene considerato inammissibile, dichiarando incidentalmente che l’atto impugnabile sarebbe stato l’avviso di accertamento – seguente alla mancata definizione – atto presupposto della cartella.
A titolo esemplificativo si cita in tal senso la pronuncia della Cassazione n. 13143/2018: “Il mancato perfezionamento dell’accertamento con adesione, contrariamente a quanto affermato dalla Comm. trib. reg., restituisce piena efficacia all’originario accertamento, non essendo impugnabile la cartella esattoriale, conseguente alla definitività dell’accertamento, se non per vizi propri, non potendo rimettere in discussione il merito della rettifica resasi definitiva, come nel caso di specie, per mancata impugnazione”.
È chiaro che un’attenta lettura delle motivazioni della pronuncia in esame fanno perdere un po’ di peso all’orientamento stesso in quanto, l’impugnabilità dell’avviso di accertamento appare più giustificata alla luce dell’impossibilità – di carattere generale – di impugnare la cartella di pagamento (se non per vizi propri) piuttosto che un via libera rispetto alla possibilità di impugnare l’avviso dopo il mancato pagamento di un accordo di adesione seppur sottoscritto. In sostanza, la giurisprudenza non sembra sancire il principio di impugnabilità nonostante l’accordo precedente, quanto piuttosto richiamare i ricorrenti al rispetto della regola dei vizi propri[3].
La decisione della Corte di Cassazione
Come anticipato, la Corte di Cassazione nell’annotata pronuncia aderisce al maggioritario orientamento sul punto formatosi, sancendo la non impugnabilità dell’avviso di accertamento dopo la sottoscrizione di un accordo di adesione quando i relativi importi non siano poi più stati corrisposti dal contribuente.
La motivazione della sentenza è però di particolare pregio perché dimostra come la decisione dei giudici non sia basata sul dato testuale delle norme – la cui analisi esposta dalla difesa deve invece essere valutata con enorme serietà – bensì sulla diseguale posizione che le parti – contribuente e Fisco – rivestono nell’accertamento con adesione e quindi sulla ratio di un accordo che produce effetti solo dopo che una delle parti vi abbia dato esecuzione.
In tal senso, la Corte di Cassazione (ordinanza n. 4636/2024) si è recentemente già espressa affermando che: “il Collegio ritiene che l’accertamento con adesione non sia un atto amministrativo unilaterale, né un contratto di transizione, stante l’evidente disparità delle parti e l’assenza di discrezionalità in ordine alla pretesa tributaria; piuttosto esso si configura come un accordo di diritto pubblico, ovverosia un atto bilaterale, consensuale ed ineguale, cui intervengono, su posizioni non pari ordinate, l’amministrazione finanziaria e il contribuente privato, la prima nell’esercizio di una funzione pubblica, il secondo nella sfera dell’autonomia privata, sicché a tale atto si applicano, non le disposizioni del Codice civile relative alla transazione, ma la disciplina speciale pubblicistica che lo prevede”.
La Suprema Corte, in sostanza, ammette l’incongruità della normativa ma la ritiene giustificabile alla luce del disequilibrio che caratterizza il rapporto Fisco-contribuente. Differenza che giustifica:
- per il Fisco la non vincolabilità dell’accordo sino all’esecuzione dello stesso;
- per il contribuente, la cristallizzazione degli effetti positivi dell’accordo solo al momento dell’esecuzione del pagamento, privando quest’ultima parte della possibilità di censurare l’avviso di accertamento originario e ammettendo l’ufficio a pretendere l’esecuzione della pretesa fiscale originaria quandanche quest’ultima sia stata ridimensionata – evidentemente su qualche base di fondamento – dalla stessa Amministrazione finanziaria.
Per cui è chiaro che, se asetticamente considerate, le conseguenze del mancato pagamento siano gravose soltanto per una delle 2 parti: l’Amministrazione finanziaria resta vincolata all’accordo solo dopo che il contribuente vi abbia dato almeno un principio di esecuzione; mentre per il contribuente il vincolo – e quindi l’effetto preclusivo della non impugnabilità – scatta già con la sottoscrizione dell’accordo.
Tuttavia, è nel diritto pubblico e negli interessi pubblici di cui l’Amministrazione finanziaria è portatrice che la Cassazione ravvisa la legittimità di tale impostazione. Pertanto, seppur non possa sottacersi che resti un’anomalia la circostanza che una fase esecutiva diventi elemento costitutivo essenziale per la produzione degli effetti, tale anomalia è giustificata alla luce di quanto sopra detto, aspetto che supera la pur evidente contraddizione tra l’ammettere che l’accertamento originario resti efficace, se perfezionamento non c’è (o meglio, se pagamento non c’è), e il negare che questo atto, pur regolatore del rapporto, possa essere impugnato (ovviamente nel rispetto dei termini normativi).
Chiosano i giudici affermando il seguente principio di diritto: “Intervenuto l’atto di accertamento con adesione, l’originario atto impositivo non è più impugnabile, in quanto tale impugnazione implicherebbe la revoca unilaterale da parte del contribuente dell’accertamento con adesione da lui sottoscritto, non consentita dall’ordinamento. Il rapporto d’imposta tra l’Amministrazione e il contribuente è regolato definitivamente dall’atto di accertamento con adesione, ma qualora il contribuente che l’abbia sottoscritto non versi nei termini l’importo dovuto, esso sarà regolato dall’atto impositivo originario”.
Conclusioni
Ciò che lascia perplessi al termine dell’analisi di tale ragionamento è l’adeguatezza di tale impostazione rispetto alla conclamata compliance che deve sempre più informare il rapporto tra Fisco e contribuente e ai principi di buona fede e collaborazione che dovrebbero caratterizzare i contraddittori tra le parti.
In particolar modo, lascia perplessi l’impossibilità per il contribuente di richiedere al giudice – per il tramite dell’impugnazione dell’originario avviso – di rideterminare la pretesa fiscale quantomeno all’imponibile accordato in sede di adesione. Privare di tale possibilità equivale a voler vanificare le ragioni – fondate – che hanno condotto finanche il medesimo ufficio a rettificare il proprio operato determinando un imponibile che va considerato, quantomeno a livello presuntivo, come dotato di una sua fondatezza.
Acconsentire a tale soluzione non priverebbe neppure l’ufficio di tutele maggiori poiché comunque il contribuente – dopo l’impugnazione dell’atto – non potrebbe più accedere alle sanzioni in misura ridotta[4].
Alla luce di tali riflessioni occorre dunque chiedersi quanto sia oggi ancora persuasivo sostenere una posizione istituzionalmente diseguale delle parti, sia pure a proposito di una interlocuzione tra Fisco e contribuente. E, soprattutto quanto oggi sia ancora accettabile fondare il procedimento tributario su una tale diseguaglianza alla luce delle modifiche recenti allo Statuto del contribuente tese ad affermare con maggiore forza i principi di collaborazione, buona fede e affidamento.
Forse di auspicio in tale direzione è la nuova metodologia dello “schema d’atto”, che anticipando (laddove previsto), la procedura di adesione, almeno evita equivoci circa l’impugnabilità del successivo atto di accertamento in caso di mancato perfezionamento dell’accordo a seguito del non avvenuto pagamento. In sostanza, in presenza dello schema d’atto e anticipando in tale fase l’adesione, il contribuente non corre (o almeno si ritiene che non dovrebbe correre) rischi in caso di ripensamenti e mancato versamento del dovuto: in tale circostanza, infatti, pur avendo firmato l’adesione, ma non operando il pagamento anche solo della prima rata, al più resta in piedi lo schema d’atto e l’Amministrazione finanziaria dovrà pur sempre emanare il successivo atto impugnabile.
Ovviamente il problema resta per le casistiche in cui l’atto impugnabile non è preceduto dallo schema d’atto e per le situazioni in cui il contribuente non ha voluto attivare la procedura di adesione a fronte dello schema d’atto. In queste ipotesi, infatti, l’adesione è pur sempre attivabile rispetto all’atto impugnabile (a condizione che non sia stata svolta in una fase precedente del “percorso” endoprocedimentale di formazione dell’atto impugnabile, ad esempio anche relativamente al pvc), con richiesta da eseguire tassativamente entro i 15 giorni della relativa notifica. Per coloro che “esplorano” questa soluzione, dunque, rimane necessario essere attenti alla decisione finale: una volta firmata l’adesione, alla luce della commentata giurisprudenza della Cassazione non soltanto non è possibile “ripensarci” e non pagare (pena la perdita dell’adesione), ma soprattutto si ottiene l’indesiderato effetto di rendere definitivo l’atto impugnabile, con recupero pieno del quantum accertato, degli interessi e delle relative sanzioni, senza riduzione di sorta.
[1] È appena il caso di rilevare che, almeno sul piano normativo, il pagamento della prima rata a completamento del perfezionamento dell’adesione, nei termini di cui si dirà nel presente commento alla luce dell’approdo giurisprudenziale della Cassazione, riguarda solo alcuni degli istituti deflattivi previsti dal Legislatore, posto che, ad esempio, nel caso della conciliazione giudiziale l’accordo si perfeziona solo ed esclusivamente con la firma delle parti, non avendo rilievo alcuno l’eventuale mancato pagamento del dovuto (o della prima rata): in tale ipotesi, infatti, la conciliazione resta valida e gli importi saranno oggetto di recupero mediante l’azione della riscossione.
[2] La perplessità da molti manifestata circa questa non nuova posizione della Corte, riguarda il fatto che un momento esecutivo, quale il pagamento, viene elevato a elemento essenziale della fattispecie, apparentemente condannando l’accordo sottoscritto a una condizione di non operatività e di non vincolatezza: il contribuente può sottrarsi al pagamento, vanificando l’accordo, ma a quel punto perde persino la possibilità di definire il contesto impositivo. Quindi se da un lato il mancato pagamento genera il mancato perfezionamento dell’adesione, dall’altro si determina la non impugnabilità dell’atto di accertamento originario, che diviene definitivo.
[3] Se si intende contestare un atto accertativo, non si può aspettare la notifica dell’atto della riscossione per intraprendere la lite con il Fisco.
[4] Una simile soluzione sarebbe anche coerente con il disposto dell’articolo 4, comma 2, D.Lgs. 218/1997 il quale attribuisce un valore positivo all’accordo, anche nei confronti di soggetti che non vi hanno aderito e pertanto considera l’imponibile determinato in quella sede come l’imponibile accertabile a carico dei soggetti non aderenti. Si pensi alle posizioni dei soci, non solo all’interno del litisconsorzio necessario, ma anche nelle ipotesi delle c.d. “società a ristretta base partecipativa”. La rigida interpretazione assunta potrebbe finanche condurre al paradosso di un accordo non divenuto definitivo sulla società, con relativo atto non più impugnabile e separate procedure dei soci magari definite positivamente in adesione.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Accertamento e contenzioso”.




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