11 Maggio 2016

Quando le associazioni culturali devono aprire partita IVA

di Guido Martinelli
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Come è noto una associazione culturale diventa soggetto IVA ogni qualvolta consegua proventi di natura commerciale che abbiano il carattere della abitualità.

Mentre per gli enti commerciali e le società, infatti, tutte le operazioni che consistono nella cessione di beni o prestazioni di servizi sono da ritenersi soggette all’imposta sul valore aggiunto, per gli enti non commerciali e, in particolare, per le associazioni culturali/teatrali, musicali, ricreative, risulteranno essere soggette a tale imposta soltanto quelle operazioni espressamente ritenute imponibili, c.d. attività commerciali, svolte in modo non occasionale od episodico.

La disciplina dell’IVA per tali enti  risulta, in verità, conforme a quella delle imposte sui redditi; pertanto, rientrano nel campo dell’applicazione dell’imposta soltanto ed esclusivamente le attività commerciali già ritenute tali ai fini IRES, ad eccezione dei contributi corrispettivi erogati da Enti pubblici e quelli introitati per l’organizzazione di gite o viaggi dalle associazioni di promozione sociale, i quali non concorrono alla formazione del reddito imponibile ma sono gravati da IVA e soggetti ai relativi adempimenti.

Si ricorda che, per le associazioni culturali, ricreative, musicali o comunque per gli enti non commerciali in genere, non sono considerate commerciali le prestazioni di servizi fatte ai soci, anche a fronte di corrispettivi specifici (purché l’associazione abbia adeguato lo statuto ai principi contenuti dall’articolo 148 TUIR, novellato dal D.Lgs. 460/1997), nonché le oblazioni o le erogazioni liberali (cioè i contributi versati all’ente da terzi senza che, a fronte dei quali, l’associazione assuma alcun obbligo di controprestazione), oltre che, per le associazioni di promozione sociale, il posto di ristoro e l’organizzazione di viaggi.

Sono, invece, – anche per le associazioni – considerate sempre di natura commerciale (e quindi soggette ad IVA) la cessione di beni nuovi prodotti per la vendita, la gestione di mense, la gestione di esposizioni a carattere commerciale, la somministrazione di pasti, l’organizzazione di viaggi, soggiorni (ad eccezione degli enti di promozione sociale), prestazioni turistiche e alberghiere.

L’articolo 1 del decreto IVA prevede che l’imposta sul valore aggiunto si applichi sulle cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nell’esercizio di “impresa“. Sulla portata di tale termine soccorre l’articolo 4 dove viene detto: “per esercizio di imprese si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli articoli 2134 e 2195 del codice civile, anche se non organizzate in forma d’impresa”.

Preliminare ad ogni considerazione in materia di IVA, è quella diretta a stabilire il campo di applicazione dell’imposta in relazione all’abitualità e alla professionalità nell’esercizio delle attività commerciali di un ente non commerciale; presupposti, questi, che come visto sopra sono indispensabili.

Cercando di estrapolare il concetto di abitualità da tutta una serie di chiarimenti ministeriali, si osserva come esso non debba essere inteso solo in termini di “numero di volte”, ma in termini di programmazione delle attività, di ripetitività delle medesime nonché di rilevanza economica.

Riepilogando, non sono tenuti all’apertura di una posizione IVA tutti quegli enti non commerciali che svolgono esclusivamente attività istituzionale o attività commerciale in maniera occasionale. In tutti gli altri casi, invece, occorrerà aprire una posizione IVA.

Il Ministero delle Finanze ha infatti chiarito che “tale abitualità può anche sussistere allorquando rare prestazioni annuali siano ripetute nel corso di anni successivi, tenuto conto anche della consistenza economica delle prestazioni stesse”.

La difficoltà nella definizione di tale concetto la si ricava dalla lettura di un altro pronunciamento ministeriale, apparentemente di segno contrario, dove viene detto che le prestazioni poste in essere dai gestori dei palchi per gli spettatori in occasione delle manifestazioni del Palio di Sienacostituiscono un’attività occasionale priva del requisito dell’abitualità che non fa assumere ai suddetti gestori la veste di soggetto passivo d’imposta in ordine all’organizzazione e alla gestione della citata manifestazione”.

Ne consegue che il concetto di professionalità e abitualità va verificato volta per volta, tenendo presente l’attività principale svolta dall’associazione e l’impegno profuso nello svolgimento di quelle che possono, astrattamente, essere considerate operazioni imponibili.