20 Aprile 2016

Le procedure concorsuali ed il trasferimento della sede all’estero

di Marco Capra
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Non è infrequente imbattersi in consulenti che propongono trasferimenti della sede legale all’estero per sottrarre l’impresa in crisi al giudizio dell’Autorità italiana.

C’è da chiedersi quale sia l’efficacia di siffatte soluzioni.

Il legislatore nazionale ha regolato la competenza territoriale all’articolo 9 L.F.: “Il fallimento è dichiarato dal tribunale del luogo dove l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa. Il trasferimento della sede intervenuto nell’anno antecedente all’esercizio dell’iniziativa per la dichiarazione di fallimento non rileva ai fini della competenza. L’imprenditore, che ha all’estero la sede principale dell’impresa, può essere dichiarato fallito nella Repubblica italiana anche se è stata pronunciata dichiarazione di fallimento all’estero. Sono fatte salve le convenzioni internazionali e la normativa dell’Unione europea. Il trasferimento della sede dell’impresa all’estero non esclude la sussistenza della giurisdizione italiana, se è avvenuto dopo il deposito del ricorso di cui all’articolo 6 [ricorso del debitore, di uno o più creditori o su richiesta del pubblico ministero – n.d.r.] o la presentazione della richiesta di cui all’articolo 7 [iniziativa del pubblico ministero – n.d.r.]”.

Sotto il profilo della normativa comunitaria, si rimarca la rilevanza del COMI, secondo l’acronimo inglese di centre of main interests, nozione consacrata, seppur in assenza di definizione, nell’articolo 3 del regolamento UE n. 1346 del 29 maggio 2000 sulle procedure di insolvenza: dunque, sono competenti i giudici dello Stato nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore.

La Corte di Giustizia ha ritenuto che si possa individuare come centro degli interessi di una società insolvente il luogo dell’amministrazione principale della stessa, inteso come centro effettivo di direzione, gestione e controllo, sulla base di elementi oggettivi e riconoscibili dai terzi.  

Pertanto, deve concludersi che i trasferimenti di sede fittizi non sottraggano l’impresa insolvente al suo giudice naturale. Tale lapidaria conclusione ha più volte trovato conferma giudiziale.

Al riguardo, recentemente, la Corte di Cassazione, con la sentenza SS.UU. 17 febbraio 2016, n. 3059, ha confermato che sussiste la giurisdizione italiana nel caso in cui l’effettivo esercizio dell’attività imprenditoriale non segua al formale trasferimento della sede sociale all’estero: la Cassazione, sulla scia di un costante orientamento (Cass. SS.UU. n. 3368/2006; Cass. SS.UU. n. 15880/2011), ha, appunto, ritenuto sussistere la competenza del giudice nazionale per una società di capitali italiana che, al manifestarsi dell’insolvenza, aveva trasferito la sede sociale all’estero, senza dislocare l’attività d’impresa.

Gli Ermellini individuano il “centro degli interessi” in Italia e, appunto, sottomettono l’impresa insolvente alla competenza del giudice italiano, avuto riguardo ad indizi quali l’esistenza di un’organizzazione, la stabile residenza in Italia del legale rappresentante ovvero degli esponenti aziendali, la dimensione dell’indebitamento (in particolare: erariale e previdenziale) domestico, l’esistenza di un recapito in Italia della società che consenta le notifiche, il non effettivo esercizio di attività imprenditoriale nella nuova sede legale (sede quale “cartellina sospesa nello studio dell’avvocato”), l’irreperibilità presso la nuova sede legale, il trasferimento in pieno “periodo sospetto” e la scadenza dei crediti anteriore al trasferimento.

Una conferma a contrariis del principio si rinviene in altra recente sentenza della Suprema Corte (Cass. SS.UU. n. 2201/2016), ove si statuisce la nullità della notifica dell’istanza di fallimento e del decreto di fissazione d’udienza al vecchio legale rappresentante italiano, laddove il COMI si trovi all’estero a seguito di trasferimento della sede.

Sulla base dei consolidati principi di cui si è detto, anche la giurisprudenza di merito ha più volte affermato la giurisdizione italiana (ex multis: Trib. Padova, 15 ottobre 2015).

Così, dunque, può concludersi: è inutile trasferire fittiziamente la sede legale all’estero nel tentativo di sottrarsi all’inevitabile dichiarazione di fallimento, poiché la giurisdizione permane in capo al giudice italiano.