Contraddittorio da studi, l’Agenzia in crisi se non motiva
di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22946 depositata 10 novembre 2015, aggiunge un ulteriore importante tassello alla problematica dell’adeguata motivazione dell’avviso di accertamento in relazione ad uno studio di settore, sottolineando come sia compito preciso dell’ufficio procedente evidenziare la possibilità di applicazione dello standard al caso concreto e soprattutto adeguatamente motivare sulle ragioni che non hanno permesso di condividere le tesi difensive del contribuente. Sul tema è ormai noto che lo studio di settore è stato ricondotto al rango di una presunzione semplice, non in grado di sostenere autonomamente un accertamento. Per l’Amministrazione finanziaria il compito preciso è cercare di individuare ulteriori supporti al dato di Gerico, in modo da comprovare la stima effettuata. In forza delle indicazioni della Cassazione a Sezioni Unite (sentenze 26635 e seguenti del dicembre 2009), è obbligatorio il contraddittorio preventivo pena l’impossibilità di procedere all’emissione dell’atto, fermo restando che il contribuente può comunque difendersi in sede tributaria, rimanendo al giudice l’apprezzamento della applicazione o meno dello standard al caso concreto analizzato. In termini pratici ciò implica le seguenti fasi:
- l’Agenzia delle entrate, sulla base delle risultanze degli studi di settore, può decidere di convocare il contribuente richiedendo le spiegazioni della mancata congruità e del relativo mancato adeguamento;
- il contribuente da parte sua può in contraddittorio fornire le ragioni del mancato adeguamento. Tale fase è oltremodo importante in quanto può consentire, come a breve vedremo ribadito anche dalla Corte di Cassazione, l’inversione dell’onere della prova, spettando all’Amministrazione finanziaria il compito di illustrare le motivazioni del mancato accoglimento delle ragioni di parte;
- la non partecipazione al contraddittorio o comunque la partecipazione “pro-forma” esplica due effetti: da un lato, l’Agenzia delle entrate è legittimata ad emettere l’atto provando solo l’applicabilità dello standard al caso concreto; dall’altro, il contribuente si assume la responsabilità del proprio operato, sapendo comunque di potersi difendere in maniera concreta in commissione tributaria;
- sarà infine il giudice tributario a valutare il complessivo procedimento e le prove fornite. In tale sede però un peso notevole è assunto dal contraddittorio: la partecipazione fattiva del contribuente allo stesso, infatti, pone l’obbligo di una valutazione preliminare fondamentale, ossia verificare se l’onere motivazionale è stato correttamente adempiuto.
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ribadisce in maniera puntuale tali aspetti. In particolare però è interessante notare un passaggio in cui i supremi giudici evidenziano che è del tutto non veritiero affermare che lo studio di settore possa essere ritenuto attendibile in forza della percentuale di scostamento tra i ricavi/compensi ricalcolati e quelli dichiarati, tematica non decisiva, salvo nelle ipotesi in cui il contribuente non provi in alcun modo, nemmeno in sede contenziosa, le ragioni del suo scostamento. Così si esprime la suprema Corte: “In tale quadro complessivo è stato così chiarito che il tema della grave incongruenza appare del tutto assorbito dal procedimento in contraddittorio, potendosi affermare che legittimamente l’Ufficio procede dalla rilevazione dello scostamento ed incrementa il significato presuntivo ad esso attribuibile se e nella misura in cui il contribuente, intervenendo in tale istruttoria, non coopera nel proprio interesse adducendo fatti di contrasto che indichino elementi contraddittori ed avversativi rispetto a quelli provenienti da tale modalità di potenziamento del metodo di accertamento analitico presuntivo”. Ed ancora “che la nozione di grave incongruenza non può essere posta avendo riguardo in via assoluta a precise soglie quantitative fisse sicuramente al disotto od oltre tale accento di rilievo, vivendo invece la nozione di indici di natura relativa da adattare a plurimi fattori propri della singola situazione economica, del periodo di riferimento ed in generale della stessa storia commerciale del contribuente destinatario dell’accertamento, oltre che del mercato e del settore di operatività”.
Dal ché la conclusione fondamentale: se il contribuente ha attivamente partecipato al contraddittorio, la motivazione dell’atto di accertamento “(…) non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente”.
Di fatto, l’adeguata memoria prodotta nel contraddittorio, con puntuale illustrazione delle ragioni dello scostamento (nel caso specifico affrontato dalla sentenza in commento il contribuente aveva illustrato il perdurante stato di crisi dell’attività) non solo inverte l’onere probatorio, ma mette davvero in crisi l’obbligo motivazionale dell’atto. L’ufficio deve essere puntuale e preciso nello spiegare per quale motivo non accoglie le tesi di parte e soprattutto perché nonostante tali obiezioni difensive comunque ritiene lo standard applicabile al caso concreto. Certamente tale compito non è semplice, essendo ormai del tutto cassate le motivazioni standard “ritenuto di non condividere” oppure “considerato lo scostamento registrato”. La speranza è che atti simili non siano più emanati in futuro.