16 Ottobre 2015

Transfer pricing e onere probatorio

di Luigi Ferrajoli
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Approda in Cassazione un’interessante questione concernente la rettifica in aumento da parte dell’Amministrazione finanziaria dei ricavi dichiarati da una Società a seguito della rideterminazione a valore normale dei prezzi di trasferimento da questa praticati nella cessione di beni e prestazioni di servizi alle sue consociate estere.

La vicenda che vede coinvolta la sede italiana di una nota compagnia di telecomunicazioni ha consentito ai Supremi Giudici la formulazione di principi di diritto nell’ambito di una materia dai tratti ancora piuttosto incerti per l’operatore e molto dibattuta tra gli interpreti, sia in ordine alla natura della disciplina, che viene dalla Corte inquadrata all’interno delle norma a finalità espressamente antielusiva, sia con riguardo ai principi in tema di ripartizione dell’onere probatorio tra Amministrazione finanziaria e contribuente.

Il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, affidato a sei motivi di diritto, coinvolgeva anche ulteriori rilievi frutto dell’attività di verifica prodromica all’accertamento riguardando la rettifica delle perdite dichiarate dalla società, in esito al recupero a tassazione di alcune componenti negative del reddito, ritenute dall’Amministrazione finanziaria indeducibili, nonché la ripresa a tassazione, per l’anno 1998, ai fini IVA, del costo di alcuni servizi di consulenza e ricerca resi ad una consociata estera e ritenuti dall’Ufficio soggetti ad imposizione in Italia ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 7, comma 3, e del valore di alcune operazioni commerciali ritenute inesistenti.

Tuttavia, gli esiti di maggiore valenza ermeneutica la Cassazione li raggiunge proprio con riguardo al rilievo sul transfer pricing che ha stimolato la Corte nella formulazione, con la sentenza n. 16399/2015, di un interessante riparto probatorio tra prova positiva da rendersi a cura dell’attore sostanziale del giudizio tributario (i.e.: Amministrazione finanziaria) e prova contraria ad onere del contribuente/ricorrente.

Com’è noto, la disciplina del transfer pricing, ai sensi dell’art.110, co.7, d.P.R. n.917/86 (già art.76, co.5), prevede che i componenti derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, le quali direttamente o indirettamente controllano l’impresa o ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società controllante l’impresa nazionale, siano valutati in base al “valore normale” dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti.

L’analisi dei prezzi può essere condotta facendo ricorso a metodi di tipo tradizionale (confronto di prezzo, prezzo di rivendita, costo maggiorato) ovvero con metodi alternativi (ripartizione dei profitti globali, comparazione dei profitti, redditività del capitale investito, margini lordi di settore).

Nella fattispecie in esame la valutazione di conformità dei prezzi praticati tra le consociate era stata operata alla stregua del metodo del confronto dei prezzi ritenuto, per giunta, non adeguato dai Giudici di merito siccome “è stato fatto, non fra prodotti identici fra loro, ma fra quelli appartenenti ad una stessa generica famiglia e non necessariamente simili come struttura e composizione” i quali avevano, pertanto, concluso considerando “non raggiunta la prova che le transazioni poste in essere dalla parte con le sue consociate estere siano avvenute a prezzi inferiori al normale“.

La Corte ha colto l’occasione per ribadire, da un lato, che la disciplina di cui all’art.110 Tuirfissa una clausola antielusiva finalizzata ad evitare trasferimenti di utili mediante l’applicazione di prezzi inferiori o superiori al valore dei beni scambiati, onde sottrarli all’imposizione fiscale in Italia a favore di tassazioni estere inferiori”, dall’altro, per operare un distinguo in termini di assolvimento dell’onere probatorio a seconda che la rettifica abbia ad oggetto i ricavi dichiarati dalla contribuente ovvero la deducibilità dei costi da questa sostenuti.

Sotto il primo profilo la pronuncia chiarisce che, per quanto concerne i componenti positivi del reddito, l’onere di provare la fondatezza della rettifica da transfer pricing incombe sull’Amministrazione finanziaria, secondo le regole generali in materia e che tale onere resta limitato alla dimostrazione dell’esistenza di transazioni tra imprese collegate e dello scostamento evidente tra il corrispettivo pattuito e quello di mercato (valore normale), non essendo tale onere esteso alla prova della funzione elusiva dell’operazione,mentre, con riferimento alle rettifiche dei costi” specificano gli Ermellini “poiché il problema della ripartizione dei costi infragruppo involge anche il profilo dell’inerenza, oltre che quello dell’esistenza, l’onere di fornire la dimostrazione dell’esistenza e dell’inerenza di tali componenti negativi del reddito e, qualora si tratti di costi derivanti da servizi o beni prestati o ceduti da una società controllante estera ad una controllata italiana, anche di ogni elemento che consenta all’Amministrazione di verificare il normale valore dei relativi corrispettivi, non può che ricadere, in forza del c.d. “principio di vicinanza alla prova“, sul contribuente”.