Prezzi di mercato e struttura esistente bloccano le false fatture
di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 18642 depositata il 22 settembre 2015, effettua una ulteriore importante precisazione sul delicato tema dell’utilizzo delle false fatturazioni, con particolare riguardo alla posizione del contribuente che in maniera ignara entra in contatto con una delle società che partecipano alla frode a danno del fisco. La posizione del soggetto “terzo” non è mai semplice sul piano difensivo in quanto nei suoi confronti spesso e volentieri è attuato un automatismo accertativo da parte dell’Amministrazione finanziaria, ricadendo su di esso l’onere di dimostrare la totale estraneità ai fatti contestati. Onere che diventa particolarmente improbo sul piano IVA, laddove è necessario evidenziare la non consapevolezza di essere entrati in contatto con soggetti facenti parte di un sistema evasivo basato sulle false fatture. L’argomento è stato spesso dibattuto a livello giurisprudenziale, che ha anzitutto rimarcato come la correttezza formale delle scritture contabili nonché soprattutto l’avvenuto pagamento con modalità tracciata non sono affatto sufficienti in linea difensiva, atteso che appare scontato che chi utilizza false fatture decida quantomeno di avere un assetto formale inattaccabile.
Viene poi in rilievo la problematica della ripartizione dell’onere probatorio, validamente riassunta nel recente passato dalla sentenza n. 26854 depositata il 18 dicembre 2014, secondo cui:
- l’onere della prova grava sull’Ufficio, che deve anzitutto dimostrare l’interposizione fittizia del soggetto cedente ovvero la frode realizzata a monte dell’operazione e poi soprattutto la “conoscenza o conoscibilità” da parte del cessionario della frode commessa dal cedente o da altri soggetti;
- al contribuente spetta la prova dell’effettiva corrispondenza, anche soggettiva, dell’operazione documentata in fattura con quella realizzata, ovvero “(…) la prova dell’incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale dell’operazione ingenerato dalla condotta del cedente, avuto riguardo alle modalità in cui si sono svolti i rapporti commerciali, ed agli elementi informativi acquisiti o comunque disponibili (in quest’ultimo caso la conoscibilità deve essere rapportata al grado di attenzione e diligenza normalmente richiesta nella conduzione degli affari all’operatore del settore di media esperienza) nel corso delle trattative ed al momento della conclusione delle operazioni”.
Tale assetto probatorio, peraltro, è in linea con le statuizioni della Corte di Giustizia Europea, secondo cui sono di ostacolo alla detrazione IVA non solo la prova della partecipazione del soggetto alla frode, ma anche la prova della sola consapevolezza da parte del cessionario che l’operazione che si accinge a compiere è iscritta in un fenomeno criminoso, intendendosi per consapevolezza anche la mera conoscibilità delle condotte evasive poste in essere dal cedente, da desumere mediante l’impiego della specifica diligenza professionale.
La sentenza n. 18642 dello scorso 22 settembre ribadisce tale assunto, evidenziando anzitutto che spetta all’Ufficio l’onere probatorio, da fornire anche mediante presunzioni semplici “(…) le quali possono derivare anche dalle medesime risultanze di fatto attinenti alla natura di cartiera del cedente”. Sul tema, nel caso esaminato, la Suprema Corte ritiene infondato il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, posto che la Commissione Regionale aveva validamente motivato circa la totale assenza di elementi probatori, anche presuntivi, essendosi invece in presenza di un mero automatismo connesso al “contatto” con il soggetto partecipante alla frode carosello.
Ma anche in ordine alla seconda doglianza dell’Amministrazione finanziaria riferita alla presunta mancata valutazione dell’onere probatorio offerto dal contribuente la Suprema Corte è tranciante, evidenziando come il secondo collegio di merito abbia analiticamente illustrato le ragioni che hanno condotto a ritenere il contribuente in totale buona fede e dunque ignaro di essersi rapportato a soggetti “attori” di una frode fiscale. Nel caso analizzato, infatti, si è in presenza di operazioni di compravendita effettuate a prezzo di mercato e nei confronti di soggetti che, per stessa ammissione degli organi verificatori, erano strutturati, organizzati e in alcuni casi addirittura in regola con gli adempimenti fiscali, essendo pertanto difficile, sulla base della ordinaria diligenza, scorgere intenti evasivi. Di fatto si ribadisce il trend giurisprudenziale della Suprema Corte (medesima sentenza 26854 del 2014), secondo cui la valutazione del consapevole utilizzo di false fatture transita per altre strade, quali la conoscenza/conoscibilità di elementi obiettivi di sospetto derivanti dalla concreta fattispecie come ad esempio “(…) la inesistenza di capacità aziendale della cedente, l’offerta da parte della cedente di prezzi inferiori a quelli correnti di mercato a condizioni anomale rispetto a quelle comunemente praticate (richieste di pagamento o di bonifici a terzi), il trasporto delle merci effettuato da altre società o per conto di altra società che si colloca a monte della catena di cessioni, gli ordinativi di consegna intestati ad altri fornitori, la univocità o costante reiterazione dei rapporti commerciali di fornitura di beni fungibili o comunque agevolmente reperibili sul mercato intrattenuti con la cedente”. In assenza di tali elementi è evidente che al soggetto terzo nulla può essere addebitato, dovendo considerare lo stesso in assoluta buona fede ed estraneo ai fatti contestati.