La Suprema Corte è tornata nuovamente ad occuparsi del tema concernente le misure applicabili in caso di contestazione di reati tributari.
In particolare, con la sentenza n. 27072 del 26 giugno 2015, la Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, si è pronunciata relativamente alla confisca per equivalente, riferibile a qualsiasi bene o denaro di proprietà o comunque nella disponibilità degli indagati fino alla concorrenza del prezzo, ovvero del profitto di reato.
Nei passaggi motivazionali, la Corte ha evidenziato innanzitutto che è legittimo il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, di somme di denaro sottratte al pagamento dell’IVA dovuta, “in quanto, per i reati tributari, la confisca di somme di denaro, beni o valori è consentita anche in relazione al profitto del reato”.
La confisca per equivalente, si evidenzia “viene ad assolvere ad una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza”.
Ciò posto, la Cassazione, dopo avere richiamato il dictum delle Sezioni Unite di cui alla sentenza n. 26654 del 27.03.2008 relativo ad un caso di responsabilità del reato degli enti, secondo cui di fronte ad un illecito plurisoggettivo deve applicarsi il principio solidaristico che informa la disciplina del concorso del reato e che implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente, argomenta che detto “principio solidaristico può trovare la sua massima espansione di fronte ad un provvedimento provvisorio qual è il sequestro, ma non certo per la confisca che, ancorché per equivalente, non può andare oltre quello che è il profitto complessivo del singolo reato”.
Secondo la Suprema Corte, la confisca non deve fare riferimento alla quota di profitto del singolo, potendo eccederla, tuttavia il quantum complessivo della medesima non potrà superare il profitto realizzato dai concorrenti dello specifico reato.
A tale proposito, viene operata la distinzione tra sequestro preventivo e confisca: mentre il sequestro, strumentale alla futura esecuzione della confisca, ha natura provvisoria e può essere disposto per l’intero nei confronti di ciascuno degli indagati, la confisca non può mai eccedere l’ammontare del prezzo o del profitto del reato, trattandosi di istituto di natura sanzionatoria.
La citata pronuncia delle Sezioni Unite, infatti, aveva proprio statuito che, “una volta perduta l’individualità storica del profitto illecito, la sua confisca e il sequestro preventivo ad essa finalizzato possono interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, ma l’espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel “quantum” l’ammontare complessivo dello stesso”.
Sulla base di questo principio giuridico, la Corte di Cassazione, nell’annullare nel caso di specie la sentenza impugnata limitatamente alla confisca, ha tracciato per il Giudice del rinvio le seguenti linee guida, che si ritiene opportuno riportare per intero: “a) individuare non un profitto del reato omnicomprensivo, bensì relazionato anche ai diversi reati-fine, cui evidentemente non concorrono tutti i destinatari dei provvedimenti ablatori; b) dare conto dell’insussistenza di un profitto di reato da confiscare; c) indicare con chiarezza i valori monetari in gioco, senza continui richiami induttivi o per relationem ad atti del procedimento che certo non costituiscono prova ex se dei valori in essi indicati, a meno che il giudice non indichi in motivazione il perché ritiene di aderirvi; d) specificare il valore dei singoli beni in sequestro e i criteri con cui si è pervenuto all’individuazione dello stesso”.
Questo in contrasto con quanto disposto dal Giudice di prime cure, che viceversa aveva, con affermazione ritenuta generica ed apodittica dalla Suprema Corte, pronunciato che il profitto del reato doveva essere inteso come utilità derivante quantomeno nell’importo dell’IVA evasa dalle società indicate nel capo di imputazione, di cui i soggetti coinvolti erano amministratori di fatto o di diritto.
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