28 Luglio 2015

Società di comodo. C’è abuso della persona giuridica in liquidazione?

di Enrico Ferra
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La liquidazione volontaria costituisce una delle vicende estintive della vita dell’impresa, che rappresenta, soprattutto di questi tempi, una scelta forzata in ragione delle enormi difficoltà che il quadro congiunturale offre.

Per effetto di tale scelta, come noto, l’impresa passa da una gestione puramente lucrativa al perseguimento di finalità di realizzo del patrimonio aziendale, abbandonando di fatto l’obiettivo prefissato nell’oggetto sociale.

A fronte di tale trend, la reazione dell’ordinamento tributario è pressoché nulla. Anzi, a dire il vero, negli ultimi tempi il quadro normativo si presenta oltremodo pressante nei confronti di tali soggetti, i quali, spesso anche per non aggravare ulteriormente l’esposizione debitoria, propendono per l’anticipata “eutanasia” giuridica.

Basti pensare alle stringenti norme in materia di riscossione delle imposte iscritte a ruolo (si veda “Equitalia: revoca della dilazione con 8 rate scadute (ma anche meno)” del 30 giugno 2015) o alle norme introdotte dal “decreto semplificazioni” (D.Lgs. n.175/14), decreto che però al riguardo non semplifica ma introduce una deroga ai principi civilistici di cui all’art.1495 c.c., andando a “resuscitare” di fatto le società già estinte e cancellate dal Registro delle imprese per un periodo di cinque anni dalla relativa richiesta di cancellazione, pur se “ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi”.

Passando all’aspetto che in questa sede rileva, ossia la disciplina delle “società di comodo”, è noto come anche le società in liquidazione siano pienamente sottoposte alle due condizioni che determinano la presunzione di non operatività della società e, segnatamente, il c.d. “test di operatività” di cui all’art.30 della Legge n.724/94 e il conseguimento di perdite fiscali nel quinquennio precedente; circostanza quest’ultima prevista dal D.L. n.138/11 originariamente in relazione ad un arco temporale più ristretto (tre periodi d’imposta) e poi attenuata con le modifiche apportate dal citato decreto sulle semplificazioni fiscali.

Per quanto sia condivisibile un approccio repressivo nel contrastare l’abuso della persona giuridica per scopi non prettamente imprenditoriali, appare evidente, d’altro canto, come, soprattutto in relazione al primo presupposto che fa scattare la presunzione relativa di non operatività, le norme – peraltro, piuttosto datate – mal si adattano a tali soggetti che sostanzialmente “rinunciano” allo scopo lucrativo e si avviano alla definizione dei rapporti pendenti procedendo alla disgregazione del patrimonio aziendale.

È pur vero che le società in liquidazione volontaria possono ottenere la disapplicazione di entrambe le disposizioni, e cioè sia del “test di operatività” sia delle perdite sistematiche, assumendosi l’impegno in dichiarazione a richiedere la cancellazione dal Registro delle imprese entro il termine di presentazione della dichiarazione successiva e salvando di fatto tre periodi d’imposta (ossia quello in cui viene assunto l’impegno, il precedente e il successivo), ma in molti casi, soprattutto in presenza di importanti assets aziendali, appare estremamente difficile riuscire ad immaginare quale sarà l’esercizio di effettiva chiusura. Nondimeno, come è già stato evidenziato più volte in dottrina relativamente alle società per così dire “in bonis”, appare del tutto inappropriata, a maggior ragione in questi casi, l’applicazione indiscriminata di percentuali di redditività che fanno scattare l’ulteriore presunzione del reddito minimo forfettariamente determinato. Quantomeno in linea di principio, sembra incoerente continuare a desumere una determinata capacità contributiva dall’applicazione di coefficienti di redditività rispetto ad un complesso aziendale in disgregazione (assunto, peraltro, al lordo di tutti gli ammortamenti) e ciò sul presupposto che i flussi reddituali rimangano costanti (anche) durante l’intero periodo di liquidazione.

La via di uscita, per tali soggetti, rimane quindi quella dell’interpello disapplicativo, posto che lo stato di liquidazione formale da solo non basta ad escludere la società dall’ambito di applicazione della disciplina e a superare le notevoli penalizzazioni che la stessa implica (maggiorazione dell’Ires e dell’Irap, divieto di rimborso e compensazione dei crediti Iva).

Al riguardo, la stessa Agenzia delle entrate nella circolare n.5/E/07 ha avuto modo di chiarire che, al fine di ottenere la disapplicazione delle disposizioni in commento, l’impresa in liquidazione dovrà produrre “ogni tipologia di documentazione utile a sostenere l’effettività del proprio stato di liquidazione, nonché ogni informazione idonea a dimostrare l’inequivocabile intenzione di portare a compimento tale procedura”, riportando, tra l’altro, l’indicazione delle strategie, dell’andamento, delle prospettive reddituali e temporali della liquidazione, gli eventuali contratti stipulati con agenzie immobiliari o altri accordi preliminari perfezionati e la descrizione dell’utilizzo che viene fatto dei cespiti aziendali.

 

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