Sono valide le scritture contabili tenute in lingua inglese
di Fabio LanduzziAssonime nel Caso n. 1/2015 affronta un tema molto dibattuto nella pratica professionale e che sempre più di frequente si incontra nella realtà delle imprese: ovvero, la questione della tenuta delle scritture contabili in una lingua diversa dall’italiano, specificamente in lingua inglese, e le conseguenti valutazioni in ordine alla validità e correttezza civilistica di un simile comportamento dell’impresa.
In concreto, situazioni come quelle affrontate nel Caso 1/2015 da Assonime si riscontrano di frequente nelle imprese residenti in Italia ma appartenenti a gruppi multinazionali, le quali adottano l’uso di sistemi gestionali di matrice anglosassone, magari chiamate a predisporre una reportistica periodica rivolta alla capogruppo – o talvolta al mercato – in lingua inglese, oppure anche in imprese semplicemente facenti capo a compagini societarie non italiane.
Ebbene, la disamina civilistica molto articolata contenuta nel documento pubblicato da Assonime giunge alla condivisibile conclusione secondo la quale, se sussistono obiettive ragioni funzionali – quali quelle sopra enunciate, ovvero, per tutte il caso della appartenenza dell’impresa ad un gruppo internazionale – e si tratti di una lingua comunemente accettata nel mondo degli affari – come può essere ad esempio per l’inglese – l’uso della lingua estera nella tenuta delle scritture contabili deve essere consentito, senza inficiarne affatto la validità delle stesse, sia interna che esterna.
Assonime mette in evidenza come sul punto specifico non si riscontri alcuna disposizione normativa nel Codice civile, in quanto l’art. 2219, Cod.civ., si limita a dettare dei principi di ordine generale in merito alla tenuta delle scritture contabili facendo riferimento a “norme di una ordinata contabilità”, senza però che in tale ambito possa essere fatto rientrare anche il caso della lingua adottata. In altre parole, il canone della “ordinata contabilità” può sì limitare il diritto dell’impresa ad auto organizzare il proprio sistema contabile, ma solamente per quanto strettamente funzionale ad assicurare che l’impianto contabile dell’impresa stessa sia sufficientemente razionale, adeguato ed idoneo a fornire una rappresentazione chiara, veritiera e completa dei fatti di gestione e quindi delle svolgimento dell’attività imprenditoriale.
Perciò, se può essere lecito negare l’uso di lingue convenzionali criptiche oppure di lingue non di uso comune, altrettanto non può dirsi rispetto all’impiego di lingue che, pur diverse dall’italiano, sono comunque di diffusione e di impiego sufficientemente comune nel contesto internazionale (come è il caso, ad esempio, della lingua inglese), laddove l’uso di una lingua diversa dall’italiano sia oggettivamente giustificato dalle caratteristiche dell’impresa stessa.
Anche per quanto concerne la funzione cd. “esterna” delle scritture contabili, ed in modo particolare il loro uso ai fini probatori nell’ambito di un giudizio civile, l’impiego di una lingua straniera – alle condizioni sopra richiamate – non pare essere affatto ostativo. L’orientamento giurisprudenziale di Cassazione è infatti nel senso di indicare che l’uso obbligatorio della lingua italiana, previsto dall’art. 122 C.p.c., è previsto solo per atti “processuali in senso proprio” (ad esempio, i provvedimenti del giudice, gli atti introduttivi del giudizio, ecc.) e non per i documenti prodotti dalle parti. Questi ultimi, fra cui si annoverano anche le scritture contabili prodotte nel giudizio su richiesta (art. 2709, Cod.civ.) o volontariamente (art. 2710, Cod.civ.), quando fossero redatti in lingua diversa da quella italiana, potranno essere oggetto di richiesta da parte del giudice di traduzione; o comunque sarà onere dell’impresa accompagnarle da traduzione giurata.
In conclusione, anche dando atto degli orientamenti manifestati da altre legislazioni estere che hanno disciplinato la materia, Assonime riconosce che sussistono ragionevoli motivi per consentire all’impresa – quando vi siano condizioni che ne giustificano l’opportunità – di tenere le scritture contabili anche in lingua diversa da quella italiana, purché di comune accettazione nel mondo degli affari, senza che ciò possa incontrare limiti di ordine civilistico e quindi porsi in contrasto con i precetti di “ordinata contabilità” posti dall’ordinamento vigente, e tantomeno precludere all’impresa stessa la valenza probatoria delle scritture stesse nell’ambito del rito civile.