Abuso del processo e condanna per responsabilità aggravata
di Luigi FerrajoliL’articolo 45, comma 12, L. 69/2009 (legge di riforma 2009), ha inserito nell’articolo 96 c.p.c., rubricato “Responsabilità aggravata” (pacificamente applicabile anche nel contenzioso tributario, in forza del richiamo di cui all’articolo 1, comma 2, D.Lgs. 546/1992 alle norme del Codice di procedura civile), secondo il quale “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.
L’introduzione di tale previsione è un tentativo, da parte del legislatore, di deflazionare il contenzioso introducendo la possibilità per il Giudice, anche a prescindere dalla formulazione di un’esplicita domanda di parte, di condannare l’attore e/o il convenuto che abbiano agito o si siano difesi in giudizio con mala fede o colpa grave al pagamento di una somma quale sanzione per la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’articolo 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della “potestas agendi” con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte.
Invero, con la sentenza n. 27623 del 2017 la Corte di Cassazione ha precisato che la condanna ex articolo 96, comma 3, c.p.c., applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex articolo 96, commi 1 e 2, c.p.c. e con queste cumulabile, volta – con finalità deflattive del contenzioso – alla repressione dell’abuso dello strumento processuale. La sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’aver agito o resistito pretestuosamente.
In particolare, è necessario che venga accertata, in capo alla parte soccombente, la sussistenza di mala fede, quale consapevolezza dell’infondatezza della domanda, o della colpa grave, per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza, venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata (cfr. Cass. n. 3376/2016), la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame (Cass., n. 24546/2014) ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Cass., n. 7620/2013).
Inoltre, la domanda di condanna per responsabilità aggravata ex articolo 96, comma 3, c.p.c. può essere proposta finanche nel giudizio di legittimità, purché venga formulata nel controricorso (cfr. Cass. n. 27715 del 30.10.2018).
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno esaminato la questione relativa alla funzione sanzionatoria della condanna per lite temeraria prevista dall’articolo 96, comma 3, c.p.c., in relazione sia alla necessità di contenere il fenomeno dell’abuso del processo, sia all’evoluzione della fattispecie dei “danni punitivi” che ha progressivamente fatto ingresso nel nostro ordinamento.
Sul punto, nella sentenza delle Sezioni Unite n. 22405 del 13.09.2018 si legge che “per l’applicazione di tale norma non si richiede – differentemente dalle previsioni contenute nei commi precedenti – né la domanda di parte (nella specie, per altro, ritualmente proposta), nè la prova del danno, essendo comunque necessario l’accertamento della mala fede o colpa grave della parte soccombente (Cass., 11 febbraio 2014, n. 3003). Militano in tal senso tanto l’inserimento della relativa previsione nella disciplina della responsabilità aggravata, quanto il rilievo che non può considerarsi censurabile la mera azione in giudizio per far valere una pretesa che si riveli poi infondata (Cass., 30 novembre 2012, n. 21570), essendo necessario verificare, alla stregua i principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di sussistenza ed apprezzamento della colpa grave della parte soccombente per la configurabilità della lite temeraria (Cass., 18 novembre 2014, n. 24564), la ricorrenza dei requisiti della mala fede, da ravvisarsi nei casi in cui emerga la consapevolezza dell’infondatezza della domanda, ovvero della colpa grave, da individuarsi nelle ipotesi in cui risulti la carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza”.