Accertamenti bancari non autorizzati
di Massimiliano Tasini
“A tale proposito la Corte sente il dovere di mettere nella dovuta evidenza il principio secondo il quale attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per se a giustificazione ed a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito“. Si esprimeva così la Corte Costituzionale con la sentenza n.34/1973.
Sono passati quarant’anni, ma i problemi sono sempre gli stessi. Non a caso la giurisprudenza di legittimità e di merito si occupano con una certa frequenza degli effetti della violazione delle regole che presiedono alla raccolta delle prove su cui poi fondare atti impositivi.
Una violazione spesso oggetto di dibattito consiste nella acquisizione irrituale dei dati presenti nelle banche dati dell’Anagrafe Tributaria e specificatamente dei dati relativi ai movimenti finanziari posti in essere dal contribuente, in conto come extra-conto.
Si tratta di un tema tanto sensibile quanto “frustrante”: è un sentimento assai diffuso quello secondo cui il fisco, pur nella sacrosanta esigenza di appurare l’esistenza di eventuali imponibili sottratti a tassazione, va sempre più in profondità nella sfera privata, con indagini dunque quanto mai penetranti quali quelle da redditometro o aventi, appunto, ad oggetto, i movimenti finanziari.
Il Legislatore ha certamente valutato questa esigenza, laddove, nell’abrogare tanti e tanti anni fa l’autorizzazione all’accesso a tali dati da parte del Giudice Tributario ha comunque individuato un presidio tutt’altro che irrilevante, imponendo comunque la preventiva autorizzazione dell’Organo gerarchicamente superiore (il Comandante Regionale per la Guardia di Finanza ed il Direttore Regionale per l’Agenzia delle Entrate).
La Corte di Cassazione ha ripetutamente sostenuto che la mancanza della prescritta autorizzazione, seppure può essere fonte di responsabilità in via gerarchica per il funzionario/militare inosservante della regola, non inficia l’atto impositivo, sotto il duplice profilo della legittimità dello stesso e della impossibilità di ritenere le presunzioni sottese alla presenza dei movimenti bancari da legali relative a semplici.
La stessa Corte ha inoltre ritenuto che l’autorizzazione (e il suo diniego) non sia soggetta all’obbligo di motivazione, nè che la stessa debba essere allegata all’atto impositivo. Così la sentenza n. 5849/2012, per la quale le ragioni dell’indagine e il suo scopo non sono requisiti necessari dell’atto impositivo. Così la stessa Corte nella sentenza 14026/2012 nella quale si rileva che, a dispetto del “nomen juris”, l’autorizzazione costituisce un mero atto di organizzazione tutto interno alla Pubblica Amministrazione, ha funzione meramente preparatoria nel procedimento amministrativo e in quanto tale non è nemmeno qualificabile come provvedimento, che sarebbe soggetto ai sensi dell’art. 3 della L. 241/1990 e art. 7 della L. 212/2000 all’obbligo di motivazione.
Ci permettiamo sommessamente di dissentire, rilevando che in ossequio al principio di trasparenza amministrativa la stessa Circolare n. 1/2008 della Guardia di Finanza rimarca la necessità di congruamente motivare sia l’innesco dell’indagine finanziaria e sia anche l’accoglimento (o il diniego) della prescritta autorizzazione. È difficile accettare che in un moderno Stato di diritto sia irrilevante il rispetto di quelle regole su cui tanto e con tanta forza ci richiama la Consulta. Tutto ciò alimenta un clima di reciproca sfiducia, quando lo Stato dovrebbe essere il primo presidio per i cittadini.
Sarebbe auspicabile che l’Agenzia delle Entrate tornasse sul tema delle indagini finanziarie riprendendo la Circolare n. 32/E/2006 e dettando istruzioni agli Uffici che facciano tesoro di questi primi anni di vigenza della nuova normativa, cercando al contempo di buttare “acqua sul fuoco”…