La CTR aveva invece dato ragione al contribuente, asserendo che il ritrovamento di documentazione presso terzi non poteva consentire, con certezza, l’accertamento in questione, non essendosi in presenza di elementi tali da far risalire la stessa proprio al contribuente accertato.
L’assunto è stato completamente ribaltato dalla Suprema Corte, che ha invece evidenziato la necessità di effettuare idonee comparazioni, senza ritenere in automatico non utilizzabili gli elementi di cui si discute.
Molto puntuale la posizione della Corte di Cassazione, che ha anzitutto evidenziato come le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può o meno attribuire rilevanza ai fini del proprio convincimento: pertanto la contabilità a nero, sotto forma di file informatici, rappresenta un valido elemento probatorio presuntivo, liberamente apprezzabile dal giudice nella valutazione della presunta evasione realizzata mediante le operazioni non contabilizzate. Peraltro consta giurisprudenza consolidata secondo cui l’accertamento induttivo, in presenza di contabilità inattendibile, ben può fondarsi sulla documentazione reperita presso terzi e su elaborazioni di terzi. Al che è evidente che l’Amministrazione finanziaria può fornire “elementi anche indiziari da cui sia possibile dedurre con ragionevole consequenzialità che i documenti elaborati dal contribuente non siano veritieri, quali, nel caso di specie, l’esistenza di diverse operazioni regolarmente annotate tra il terzo ed il contribuente”.
Dal ché la conclusione condivisibile secondo cui i documenti informatici rinvenuti presso un terzo “non possono essere ritenuti dal giudice, in sé, probatoriamente irrilevanti, senza che a tale conclusione conducano l’analisi dell’intrinseco valore delle indicazioni che da essi discendono e la comparazione delle stesse con gli ulteriori dati acquisiti e con quelli emergenti dalla contabilità del contribuente”.
Tradotto in termini pratici a parere dei supremi giudici la sola circostanza dell’acquisizione di informazioni presso terzi non esclude che possa essere effettuato un accertamento nei confronti di un contribuente estraneo alla detenzione di detti documenti, ma che sia citato negli stessi. Se tale procedura è senza dubbio esperibile in caso di contabilità inattendibile, lo è altrettanto quando l’insieme delle informazioni emergenti dai documenti rinvenuti e la relativa comparazione con i dati che emergono dalla contabilità del contribuente dimostrano, secondo il noto principio dell’id quod plerumque accidit, che vi sia stata evasione. Al giudice il compito di pesare la gravità, precisione e concordanza delle informazioni iniziali con gli ulteriori elementi comparati.
Tornando al caso esaminato nella sentenza in commento, è abbastanza evidente la necessità di ponderare le informazioni emerse dai file informatici detenuti dal terzo con i dati contabili del contribuente sottoposto a controllo. Si immagini, ad esempio, la perfetta sequenza temporale, con identità di quantitativi, tra gli acquisti dei prodotti da parte del contribuente e le consegne annotate come ricevute dal terzo, con peraltro allineamento dei prezzi praticati con quelli presenti in altre fatture. Una simile coincidenza non è di poco conto, soprattutto se magari supportata anche da un anomalo andamento delle rimanenze del prodotto di cui si discute.
La documentazione di terzi, dunque, può idoneamente rappresentare uno spunto accertativo e assurgere al ruolo di prova nell’ambito del processo tributario. All’ufficio accertatore l’onere di ulteriormente corroborare tale elemento presuntivo con ulteriori riscontri che dimostrino la valenza qualificata della conclusione raggiunta. Al giudice, invece, la valutazione dell’insieme probatorio nell’ambito del proprio convincimento: nulla vieta che si ritengano non soddisfatti i parametri di gravità, precisione e concordanza, ma tale conclusione non può prescindere dal vaglio analitico delle informazioni emergenti e dalla loro comparazione con la realtà fattuale del contribuente sottoposto a controllo.
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