Accertamento da cessione d’azienda: imputazione e rateizzazione
di Cristoforo FlorioSono numerosissimi i contributi della dottrina relativamente alla tematica dell’accertamento tributario del valore di cessione d’azienda o di un ramo di essa, sia ai fini dell’imposta di registro che nell’ambito delle imposte sul reddito connesse alla plusvalenza da alienazione del complesso aziendale.
In questa sede intendiamo concentrare la nostra attenzione su un effetto “distorsivo” che può verificarsi nell’ambito di un accertamento tributario di maggior plusvalenza da cessione d’azienda, laddove il cedente sia una società di persone che abbia optato per la rateizzazione del plusvalore da cessione. È infatti prassi dell’Amministrazione finanziaria imputare il maggior valore accertato in un unico anno d’imposta (quello di perfezionamento della cessione d’azienda), disattendendo l’opzione legittimamente espressa dal contribuente nella dichiarazione dei redditi per la rateizzazione della plusvalenza.
Le conseguenze di ciò non sono sempre trascurabili; infatti, in un regime di tassazione IRPEF progressiva, tale modalità di imputazione a periodo del maggior reddito accertato, peraltro presuntivamente formatosi in più esercizi, rischia di determinare per i soci persone fisiche tassati per trasparenza un ingiustificato aggravio fiscale, oltre al maggior impatto previdenziale in conseguenza del superamento della soglia rilevante per l’applicazione dei contributi variabili alla Gestione INPS Artigiani e Commercianti.
Ragioniamo su un esempio concreto. La XYZ s.n.c. possiede, da più di tre anni, due distinti rami d’azienda corrispondenti a due diverse attività commerciali; la predetta società provvede alla cessione del primo di tali rami, mantenendo la gestione del secondo, conseguendo una plusvalenza pari a 150, per la quale decide di avvalersi dell’opzione di cui all’art. 86 Tuir, che consente un’imputazione fiscale a periodo del componente positivo di reddito per quote costanti, fino ad un massimo di cinque esercizi. A tal fine e supponendo che si opti per la rateazione massima consentita, XYZ s.n.c. opererà, nel modello UNICO relativo al periodo in cui si è perfezionata la cessione d’azienda, una variazione in diminuzione per l’importo corrispondente all’intera plusvalenza conseguita ed una variazione in aumento del reddito fiscale pari ad un quinto della predetta plusvalenza. Nelle dichiarazioni dei redditi dei successivi quattro periodi d’imposta si provvederà all’imputazione delle residue variazioni in aumento di un quinto. In virtù del sistema di trasparenza fiscale delle società di persone, l’imputazione temporalmente frazionata della plusvalenza si riverbererà sulla tassazione personale e sulla contribuzione previdenziale dei soci della società cedente.
Laddove l’Amministrazione finanziaria, tipicamente a seguito di un accertamento di valore della cessione d’azienda ai fini dell’imposta di registro (secondo la discutibile equivalenza tra “valore normale” e “corrispettivo percepito”), provveda a rettificare quanto dichiarato dalla società cedente, ad esempio accertando una plusvalenza complessiva di 250 (e, pertanto, una maggior plusvalenza di 100), e imputi tale maggior reddito in un unico esercizio, si possono facilmente intuire quali siano le conseguenze fiscali in capo ai soci persone fisiche; la possibilità di “spalmare” tale maggiore importo su cinque esercizi in luogo di tassarlo in un unico periodo d’imposta non sono affatto scelte equivalenti in un sistema di aliquote progressive IRPEF.
Si pone pertanto il delicato problema del rapporto tra la scelta opzionale di tassazione frazionata della plusvalenza operata dal contribuente e l’accertamento operato dall’Ufficio con integrale imputazione della maggiore reddito accertato nel periodo di cessione dell’azienda.
Preliminarmente all’esposizione di alcune considerazioni, sintetizziamo brevemente la normativa vigente sul punto. Gli artt. 58, comma 1, e 86, comma 4, del D.P.R. n. 917/1986 dispongono che le plusvalenze patrimoniali realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di aziende o loro rami “(…) concorrono a formare il reddito, per l’intero ammontare nell’esercizio in cui sono state realizzate (…)”. Tuttavia, se l’azienda oggetto di cessione è stata posseduta per un periodo non inferiore a tre anni, il cedente può, in alternativa alla tassazione in un unico esercizio, scegliere di imputare la plusvalenza – per quote costanti – all’esercizio di cessione ed ai successivi, ma non oltre il quarto. Tale scelta si manifesta mediante apposita opzione nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta in cui si è perfezionata la cessione d’azienda. Solo nel caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, “(…) la plusvalenza concorre a formare il reddito per l’intero ammontare nell’esercizio in cui è stata realizzata (…)”.
La ratio delle disposizioni sopra citate è evidente; con esse viene equilibrato il carico fiscale gravante sul contribuente a fronte di un componente di reddito che si è formato nel corso di una pluralità di anni. Pertanto, e come riconosciuto dalla dottrina, la disposizione relativa alla rateizzazione della plusvalenza non presenta un carattere agevolativo ma riveste, semplicemente, la funzione di far rilevare il plusvalore sulla base del criterio pluriennale di maturazione che ha caratterizzato questa tipologia di reddito. In altri termini, una volta verificatosi il realizzo della plusvalenza, questa è suddivisa in più periodi d’imposta in maniera da riprodurre una tassazione riferita alla quota di incremento reddituale potenzialmente maturato in ogni periodo d’imposta. È chiaro quindi lo sforzo del legislatore fiscale di garantire il rispetto della peculiare natura delle plusvalenze, soprattutto attraverso l’introduzione di regimi fiscali di favore che trovano il loro fondamento giuridico nei principi di equità contributiva.
La normativa che regola il rapporto tributario consente al contribuente di effettuare, nelle dichiarazioni fiscali, delle precise scelte di natura analoga alle manifestazioni di volontà negoziale. Tali opzioni quindi, anche se inserite in manifestazioni non dispositive o, per usare un termine comune in dottrina, in “dichiarazioni di scienza” quali le dichiarazioni dei redditi, al pari di qualsiasi altra manifestazione di volontà negoziale non possono essere “rettificate” se non in presenza di dolo, violenza o errore (errore quale vizio della volontà) (si veda in tal senso, la Risoluzione n. 325/E/2002).
Ebbene, tornando al nostro caso, la prassi adottata dagli Uffici accertatori in casi similari ignora in molti casi la specifica modalità di tassazione della presunta maggiore plusvalenza, superando – di fatto – la legittima volontà del contribuente regolarmente espressa nell’ambito della dichiarazione dei redditi, con il rischio di violare il principio di capacità contributiva che i citati artt. 58 e 86 intendono tutelare in conformità ai dettami dell’art. 53 della Costituzione Italiana.
Non è inoltre affatto scontato che la vicenda si risolva favorevolmente al contribuente in fase di accertamento con adesione con l’Ufficio o di mediazione tributaria.
Al di là, quindi, dei criteri di quantificazione della maggiore plusvalenza, sarebbe auspicabile un chiarimento ufficiale sul punto che fornisca istruzioni agli Uffici locali dell’Agenzia delle Entrate nel senso del rispetto delle scelte opzionali di rateazione operate dal contribuente, laddove naturalmente le stesse siano state legittimamente e regolarmente manifestate nell’ambito della dichiarazione dei redditi.
Ragionando diversamente, l’Amministrazione finanziaria finirebbe per sostituirsi al contribuente nell’esercizio di un’opzione che spetta esclusivamente a quest’ultimo, con tutte le conseguenze reddituali e contributive precedentemente esposte.