Accertamento da studi di settore: la CTR Puglia interviene sul tema dello scostamento minimo che determina la “grave incongruenza”
di Giancarlo Falco
Per procedere ad un accertamento basato sugli studi di settore, come è noto, lo scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dagli studi deve rappresentare una “grave incongruenza”, secondo le indicazioni dell’art. 62 bis del D.L. n. 331/1993.
Dalla citata disposizione, dunque, si ricava, per conseguenza logica, che nell’avviso di accertamento, oltre ai ricavi determinabili sulla base degli studi e all’ammontare dei ricavi dichiarati dal contribuente, venga affermata e motivata l’esistenza di «gravi incongruenze» tra i ricavi dichiarati e quelli determinabili con gli studi di settore.
Ai fini della sussistenza di tale presupposto non sono state predeterminate dalla legge delle soglie quantitative, superate le quali l’incongruenza possa considerarsi “grave”.
Al contrario è l’Ufficio a dover giustificare la sussistenza del requisito della “gravità” all’interno della motivazione dell’atto di accertamento, palesando altresì i criteri utilizzati ai fini di tale valutazione, pena la nullità dell’atto per vizio di motivazione.
In ogni caso l’Agenzia delle Entrate, nella circolare 22 maggio 2007, n. 31, ha chiarito che le “gravi incongruenze”, che legittimano l’accertamento basato sugli studi di settore, non possono “ritenersi sussistenti in presenza di qualsiasi scostamento, indipendentemente dalla relativa rilevanza in termini assoluti o percentuali. Scostamenti di scarsa rilevanza […] potrebbero infatti rilevarsi inidonei ad integrare le sopra menzionate “gravi incongruenze”, oltre a determinare l’oggettiva difficoltà, per il contribuente, di contraddire le risultanze dello studio di settore”. Peraltro, nell’ipotesi in cui non siano sufficienti a legittimare l’accertamento, “gli scostamenti di più modesta entità potranno comunque essere considerati come elementi da utilizzare unitamente ad altri elementi disponibili o acquisibili con gli ordinari poteri istruttori”.
Ovviamente la mancanza di una determinazione chiara ed oggettiva dei requisiti quantitativi richiesti, come sempre in questi casi, ha determinato anni di contenzioso, nei quali a più riprese la giurisprudenza ha dato una propria lettura alla norma.
Da ultima è da segnalare la CTR di Bari Sez. Staccata di Lecce sentenza 247/23/13 depositata l’11.10.2013.
È da premettere che tale sentenza è importante anche per l’attenzione che ha posto sul concetto di antieconomicità, fornendo un prezioso chiarimento ove viene sancito che le difficoltà economiche del settore di riferimento giustificano il comportamento apparentemente antieconomico, aprendo quindi un importante spiraglio a tutti i casi in cui l’incongruenza tra i dati effettivi e quelli derivanti dagli studi di settore sia imputabile all’innegabile fenomeno della crisi economica che ha coinvolto le imprese negli ultimi anni.
Per quanto riguarda il tema della “grave incongruenza” i giudici hanno stabilito che è nullo l’accertamento fondato sull’applicazione degli studi di settore se la divergenza tra i ricavi accertabili e quelli dichiarati risulta soltanto del 17%, atteso che tale dato non integra la “grave incongruenza” richiesta dalla norma ai fini dell’applicabilità di tale strumento accertativo.
In particolare, su quest’ultimo aspetto, nella citata sentenza si legge che: “legittima, poi, appare l’impugnata sentenza nella parte in cui ha disposto che è nullo l’accertamento fondato sull’applicazione degli Studi di settore se la divergenza tra i ricavi accertabili e quelli dichiarati risulta soltanto del 17%, atteso che tale dato non integra la “grave incongruenza” richiesta dalla norma ai fini dell’applicabilità di tale frumento accertativo. Infatti, l’applicazione degli studi di settore è illegittima se lo scostamento dei ricavi dichiarati rispetto ai ricavi presunti è di lieve entità (Cass. Sez. Trib., del 18-05-2011, n. 10778)”.
Non è la prima volta che una Commissione si sia cimentata nel definire una soglia di scostamento minima, il cui superamento legittima l’accertamento da parte dell’Amministrazione.
Antesignana di questo trend è stata la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano del 18 aprile 2005, n.60, con la quale i Giudici hanno stabilito che “affinché si possa parlare di gravi incongruenze, lo scostamento deve essere pari almeno al 25/30 per cento”.
Sulla scia della Provinciale di Milano, la Commissione tributaria provinciale di Lecce nella sentenza 1 febbraio 2011, n. 47, ha sancito che non si ravvisa una grave incongruenza quando lo scostamento tra i maggiori ricavi accertati e quelli dichiarati è pari al 17 per cento.
Ancora, la Commissione tributaria regionale di Genova (sentenza 24 maggio 2011, n. 60), con specifico riferimento ad una percentuale di scostamento del 15 per cento, chiarisce che: “[…] è pure vero che non esiste una quantificazione percentuale normativamente definita oltre la quale il fattore scostamento possa essere considerato di per sé solo una grave incongruenza, ma – secondo una comune valutazione di ragionevolezza – tale non pare una percentuale del 15%”.
Le citate posizioni giurisprudenziali rappresentano un tentativo di colmare un “vuoto” normativo, non individuando la norma di legge la misura che rende lo scostamento “rilevante”, a differenza di quanto avviene per l’accertamento sintetico, sia nella “vecchia” che nella “nuova” versione dell’art. 38 del D.P.R. 600/1973.
La posizione dell’Agenzia, che in passato riteneva che anche uno scostamento minimale giustificasse sempre l’accertamento, rappresentano ormai un ricordo del passato, inaccettabile da un punto di vista ancor prima logico che normativo. Sarebbe opportuno che gli Uffici abbandonassero questi contenziosi o, se come sempre avviene ciò non si verifica, quanto meno le Commissioni condannassero l’Amministrazione soccombente alle spese (cosa che, per inciso, non è avvenuta neanche nel caso di specie).