Accertamento fiscale: la scusa della prostituzione non regge
di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365Spesso nell’ambito di ricorsi fiscali dedicati alla gestione dei controlli e soprattutto di quelli in materia di indagini finanziarie, si incontra, come opposizione difensiva, l’affermazione che l’introito ricevuto derivi dal mestiere più antico del mondo. Al riguardo bisogna fare una necessaria differenziazione iniziale: ormai siamo innanzi a situazioni di accertamenti reali nei confronti di prostitute, generati soprattutto dal redditometro o dalle indagini finanziarie ma non sono infrequenti casistiche in cui sono proprio i contribuenti a perorare, quale tesi difensiva, l’evenienza che i proventi siano stati incassati dai propri coniugi.
In ambedue le circostanze, però, le conclusioni della giurisprudenza sono tassative e da ultimo è stata la Corte di Cassazione ad esprimersi sul tema con la sentenza n. 22413, depositata il 4 novembre 2016. Nel caso analizzato si è in presenza di una contribuente che nonostante la mancata dichiarazione di redditi per più annualità è risultata possessore di diversi immobili e autoveicoli, pertanto, disponibilità di beni e servizi tali da denotare una ricchezza incompatibile con i redditi (non) dichiarati. Inoltre, l’attivazione delle indagini finanziarie aveva fatto emergere ingenti flussi di contanti sui conti correnti, che venivano recuperati a tassazione. La tesi difensiva principale è stata fondata sulla circostanza che la contribuente svolgesse l’attività di prostituta, attività illecita e non riconosciuta dall’ordinamento italiano e per questo non sottoponibile a tassazione.
Di opposto avviso è stata, invece, la posizione della Suprema Corte, che è giunta alle seguenti conclusioni: è irrilevante discutere di quale tipologia reddituale si tratti, ovvero se sia un reddito d’impresa o di lavoro autonomo o altro ancora, posto che comunque “(…) l’esercizio dell’attività di prostituzione, occasionale o abituale che sia, genera comunque un reddito imponibile ai fini Irpef, trattandosi in ogni caso di proventi rientranti nella categoria reddituale dei redditi diversi (…)”.
Di fatto, il provento derivante dal mestiere più antico del mondo non ammette deroghe fiscali: trattasi di evento fiscalmente rilevante, da sottoporre a tassazione, perché in via residuale comunque si classifica quale reddito diverso ex articolo 67 del Tuir. I versamenti non giustificati e la rilevante ricchezza autorizzano il controllo fiscale anche nei confronti di persone non titolari di partita IVA, spettando a questi la giustificazione in ordine alla relativa legittima provenienza dei fondi utilizzati e/o incassati.
Ciò posto, l’argomento merita qualche riflessione. La prima, semiseria, riguarda proprio la “grande” intuizione di qualcuno che pur di difendere l’indifendibile, quale ad esempio il versamento di un importo in contante non giustificato, preferisce “addebitare” al coniuge il merito dell’introito percepito. Ebbene trattasi di soluzione non solo deprecabile ma del tutto inutile, dato che sul piano fiscale non si ottiene alcun beneficio.
Detto questo, però, non è possibile non riscontrare un’anomalia di fondo nel sistema normativo italiano. Se è vero che l’attività in questione è da tassare, allora non si comprende per quale motivo non si decida di fornire delle regole specifiche. Certo la vicenda è delicata da sbrogliare circa la decisione di legalizzare l’attività di cui si discute, ma è altrettanto vero che al momento si rischia di incontrare solo ipotesi “ibride”, che sono o del tutto fuorilegge (come nel caso in questione di non dichiarare alcunchè), ovvero empiriche, come attivare una partita IVA per lo svolgimento di “altri servizi” ed iscriversi alla gestione separata INPS. La realtà è che bisognerebbe confrontarsi con altri paesi europei che hanno sviscerato il tema, posto che si rendono urgenti dei chiarimenti fondamentali se davvero si vuole giungere ad una soluzione idonea. Si pensi, velocemente, a come correttamente inquadrare i costi di una simile attività, o soprattutto a come gestire il lato previdenziale, data la maggiore predisposizione alla contribuzione in età giovanile. Se ciò non avviene, per quanto paradossale, si resta nel limbo ed il messaggio che emerge dalla sentenza appena commentata è che a dette persone non resta che non “apparire” al Fisco per non farsi accertare: dunque niente case o macchine in proprietà. Non sembra proprio una soluzione degna di un sistema fiscale adeguato, ma questo passa il convento.
Per approfondire questioni attinenti all’articolo vi raccomandiamo il seguente corso:
15 Novembre 2016 a 8:37
Anni fa si diceva che tassare la prostituzione significava riconoscere come lecita un’attività illecita e lo Stato non poteva permettere di tassare proventi illeciti. Vedo che le cose sono cambiate.
15 Novembre 2016 a 12:37
Difatti, la prostituzione in Italia è già tassata; questo ai sensi dell’articolo 36 comma 34bis della Legge 248/2006, come chiarificato dalla Cassazione con le Sentenze n. 10578/2011, 18030/2013, 7206/2016, 15596/2016 ed adesso 22413/2016. Il Codice relativo è 96.09.09 “Altre attività di servizio per la persona non classificabili altrove”.
Cosa aspettano i sex workers ad aprire la partita IVA e pagare le tasse in merito?