15 Novembre 2016

Accertamento fiscale: la scusa della prostituzione non regge

di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
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Spesso nell’ambito di ricorsi fiscali dedicati alla gestione dei controlli e soprattutto di quelli in materia di indagini finanziarie, si incontra, come opposizione difensiva, l’affermazione che l’introito ricevuto derivi dal mestiere più antico del mondo. Al riguardo bisogna fare una necessaria differenziazione iniziale: ormai siamo innanzi a situazioni di accertamenti reali nei confronti di prostitute, generati soprattutto dal redditometro o dalle indagini finanziarie ma non sono infrequenti casistiche in cui sono proprio i contribuenti a perorare, quale tesi difensiva, l’evenienza che i proventi siano stati incassati dai propri coniugi.

In ambedue le circostanze, però, le conclusioni della giurisprudenza sono tassative e da ultimo è stata la Corte di Cassazione ad esprimersi sul tema con la sentenza n. 22413, depositata il 4 novembre 2016. Nel caso analizzato si è in presenza di una contribuente che nonostante la mancata dichiarazione di redditi per più annualità è risultata possessore di diversi immobili e autoveicoli, pertanto, disponibilità di beni e servizi tali da denotare una ricchezza incompatibile con i redditi (non) dichiarati. Inoltre, l’attivazione delle indagini finanziarie aveva fatto emergere ingenti flussi di contanti sui conti correnti, che venivano recuperati a tassazione. La tesi difensiva principale è stata fondata sulla circostanza che la contribuente svolgesse l’attività di prostituta, attività illecita e non riconosciuta dall’ordinamento italiano e per questo non sottoponibile a tassazione.

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