20 Marzo 2018

Accertamento presuntivo: attenzione ai costi irragionevoli

di Francesco Rizzi
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L’avere una contabilità formalmente corretta e regolarmente tenuta potrebbe non bastare a porre l’imprenditore o il lavoratore autonomo al riparo da una rettifica del proprio reddito imponibile dichiarato.

Di fatti, oltre al corretto assolvimento degli obblighi contabili, è altresì opportuno chiedersi se vi siano elementi di irragionevolezza o di antieconomicità nelle proprie scelte gestionali, anche in quelle che potrebbero sembrare “ordinarie” e “consuete”.

Ad esempio, ci si dovrebbe domandare se i costi per l’acquisto di materie prime, di consumo o di merci, siano coerenti rispetto al volume dei ricavi dell’attività.

È bene, infatti, che l’imprenditore o il lavoratore autonomo se lo chiedano prima che se lo chieda l’Amministrazione finanziaria.

Ce lo ricorda la recente ordinanza n. 4168 del 21/02/2018 della Cassazione con la quale per uno studio odontoiatrico sono stati ritenuti non coerenti i costi per l’acquisto di “guanti monouso” rispetto al numero degli interventi sui pazienti e ai ricavi dell’attività, legittimando conseguentemente un accertamento presuntivo attraverso il quale è stato rettificato il reddito dichiarato dal contribuente.

Trattasi del ben noto accertamento “analitico-induttivo”, detto anche più semplicemente “accertamento presuntivo”, previsto dall’articolo 39, comma 1, lett. d), primo periodo, D.P.R. 600/1973 e dall’articolo 54 D.P.R. 633/1972.

Com’è noto, infatti, nei confronti delle imprese e dei lavoratori autonomi per i quali i redditi vengono determinati in base alle scritture contabili, l’Amministrazione finanziaria può accertare un maggior reddito imponibile, rettificando i componenti positivi o negativi di reddito dichiarati, pur in presenza di una contabilità regolarmente tenuta dal punto di vista formale, basandosi solamente su presunzioni semplici e ottenendo addirittura l’effetto dell’inversione dell’onere probatorio a carico del contribuente.

L’unico requisito per la legittimità di tale rettifica consiste nel fatto che l’Amministrazione Finanziaria deve individuare fatti e circostanze idonee a farle desumere l’esistenza di attività non dichiarate o viceversa l’inesistenza di passività dichiarate, sulla scorta di presunzioni semplici che siano gravi, precise e concordanti.

L’ordinanza de qua, nel sostenere che “fra gli elementi presuntivi semplici utilizzabili ai fini accertativi, purché gravi, precisi e concordanti, rientrano, senza dubbio, quelli relativi all’impiego di materiale di consumo, ove indicativi di rilevanti incongruenze tra costi e ricavi e, quindi, di attività non dichiarate o di passività dichiarate, secondo canoni di ragionevole probabilità”, si pone sulla stessa scia di altri analoghi casi che hanno avuto ampia risonanza sugli organi di stampa e che, in assenza di valide prove contrarie offerte dal contribuente, sono stati generalmente legittimati dalla giurisprudenza di merito e di legittimità.

Ci si riferisce agli accertamenti presuntivi basati sul consumo di tovaglioli (c.d. “tovagliometro”) o di acqua minerale nell’attività di ristorazione oppure basati sulla disponibilità di materiali da imballaggio nelle attività commerciali.

L’ordinanza in parola conferma dunque il già noto quadro ermeneutico di riferimento.

Detto ciò, nel rammentare solamente che ai sensi dell’articolo 2727 cod. civ. le presunzioni “sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato” e tralasciando, in quanto esula dagli scopi del presente scritto, l’approfondimento delle caratteristiche delle presunzioni “semplici” e dei connessi requisiti della gravità, precisione e concordanza, giova qui solamente evidenziare come sempre più frequentemente l’Amministrazione finanziaria riesca a ricorrere a tale tipologia di accertamento “scovando” elementi di “irragionevolezza” e/o di “antieconomicità” nelle scelte di gestione del contribuente.

Tipici e frequenti elementi di irragionevolezza o circostanze antieconomiche della gestione, solitamente ritenute dall’Amministrazione finanziaria sintomatiche di una contabilità “sostanzialmente” non attendibile sebbene “formalmente” regolare (e quindi prese quali elementi presuntivi utili a rilevare minori costi o maggiori ricavi rispetto a quelli dichiarati), consistono:

  • nella difformità delle percentuali di ricarico rispetto a quelle mediamente riscontrate nel settore;
  • nell’eccessivo importo (fuori mercato) di un costo, che lo renderebbe indeducibile, seppur effettivamente sostenuto;
  • nella mera sproporzione tra i costi per l’approvvigionamento di materie prime, di consumo o di merci rispetto al volume dei connessi ricavi

Nonostante la recente crisi economica abbia consentito ai contribuenti accertati di supportare, spesso efficacemente, le proprie difese nei confronti di tali accertamenti presuntivi, non ci si deve tuttavia “cullare” sul fatto che siffatte argomentazioni possano essere bastevoli, quanto meno da sole, a offrire al giudice la prova contraria necessaria a “vincere” le presunzioni dell’Ufficio.

Oltre a seguire la via della contestazione dell’insussistenza dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, è infatti necessario offrire una ragionevole prova contraria, idonea a chiarire le ragioni dell’apparente irragionevolezza.

Non va infine dimenticata, eventualmente anche ai fini difensivi, la preclusione per l’Amministrazione finanziaria dal ricorso all’accertamento presuntivo verso i contribuenti che godono del regime premiale previsto dall’articolo 10, commi 9 e 10, D.L. 201/2011, secondo il quale, in sintesi, tali accertamenti non sono esperibili nei confronti dei soggetti i cui ricavi sono uguali o superiori (anche per adeguamento) a quelli risultanti dall’applicazione degli studi di settore regolarmente dichiarati e che risultano “coerenti”.

Il contenzioso tributario delle operazioni straordinarie e della residenza fiscale