Ove l’Amministrazione finanziaria riesca dunque a costruire delle presunzioni che siano gravi, precise e concordanti e che conducano all’accertamento di un maggior reddito imponibile, queste sono idonee, pur in presenza di una contabilità regolarmente tenuta dal punto di vista formale, a provocare:
- la rettifica dei componenti positivi o negativi di reddito dichiarati,
- l’inversione dell’onere probatorio a carico del contribuente.
Tuttavia, ai sensi dell’articolo 2727 cod. civ., le presunzioni sono le conseguenze che la legge “trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”. Ogni ragionamento presuntivo costruito dall’ufficio deve quindi essere sempre fondato su un “fatto noto” e non su un’altra presunzione.
Il nostro ordinamento, infatti, reputa illegittima la cosiddetta “doppia presunzione”; fattispecie che si realizza quando una presunzione viene fatta derivare da un’altra presunzione (“praesumptum de praesumpto”).
Orbene, per quanto desumibile dalla suddetta ordinanza, nel caso sottoposto all’esame della Corte, l’ufficio era ricorso all’accertamento presuntivo, avendo rilevato che il contribuente presentava una percentuale di ricarico diversa da quella indicata negli studi di settore e la presunta rilevanza di tale scostamento non era stata riferita alla situazione concreta del contribuente.
Per i giudici di legittimità, l’Amministrazione finanziaria non aveva in tal modo poggiato la propria presunzione di esistenza di maggiori ricavi rispetto a quelli dichiarati su un “fatto noto” ma addirittura su un’altra presunzione e, nello specifico, su un’estrapolazione statistica.
Nell’ordinanza si legge infatti che l’inattendibilità delle scritture contabili dell’impresa non avrebbe potuto essere desunta, come invece accaduto nel caso esaminato dalla Corte, dai meri esiti di una verifica a campione di merci e dal confronto con gli indici di redditività media del settore, non meglio specificati dall’ufficio.
I giudici di vertice hanno dunque ribadito il consolidato orientamento della Cassazione, secondo cui “in presenza di scritture contabili formalmente corrette, non è sufficiente, ai fini dell’accertamento di un maggior reddito d’impresa, il solo rilievo dell’applicazione da parte del contribuente di una percentuale di ricarico diversa da quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza – posto che le medie di settore non costituiscono un “fatto noto”, storicamente provato, dal quale argomentare, con giudizio critico, quello ignoto da provare, ma soltanto il risultato di un’estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, risultando quindi inidonee, di per sé stesse, ad integrare gli estremi di una prova per presunzioni – ma occorre, invece, che risulti qualche elemento ulteriore – tra cui anche l’abnormità e l’irragionevolezza della difformità tra la percentuale di ricarico applicata dal contribuente e la media di settore – incidente sull’attendibilità complessiva della dichiarazione, ovverossia la concreta ricorrenza di circostanze gravi, precise e concordanti (ex multis, Cassazione n. 26388/2005, n. 27488/2013)”.
Secondo la Corte, dunque, in presenza di una contabilità regolarmente tenuta, l’utilizzo da parte del contribuente di una percentuale di ricarico differente da quella indicata negli studi di settore non può costituire, da sola, quella circostanza grave, precisa e concordante che il succitato articolo 39 D.P.R. 600/1973richiede ai fini della legittimità dell’accertamento analitico-induttivo, salvo che tale differenza non sia particolarmente “rilevante” ovvero abnorme e irragionevole.
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