Acconti generici: disciplina Iva
di Roberto CurcuCon la recente risposta ad interpello n. 216 del 14.07.2020, l’Agenzia delle Entrate ha fornito una risposta riguardante la possibilità di emettere delle note di variazione in diminuzione, a storno di fatture originariamente emesse per un “acconto generico”.
In particolare, l’istante aveva emesso con aliquota ordinaria una fattura pari al 30% del corrispettivo di un contratto nel quale ancora non era chiara quale dovesse essere l’aliquota applicabile, e solo dopo diversi anni, a seguito della definizione di dettaglio dei lavori da eseguirsi, emergeva che alcuni di essi potevano essere fatturati con aliquota del 10%, e quindi chiedeva la possibilità di emettere la nota di variazione in diminuzione.
L’Agenzia delle Entrate, nel negare la possibilità di emettere la nota di variazione, conferma la correttezza nella fatturazione originaria ad aliquota ordinaria dell’acconto generico, corrisposto per anticipare il corrispettivo di prestazioni da realizzare soggette ad aliquote diverse non distintamente individuabili.
Tuttavia, tale correttezza di operato non è così scontata, visto che la Corte di Giustizia europea, su un caso analogo, è giunta a soluzioni diverse.
La causa C-419/02 verte su una questione avvenuta nel Regno Unito a cavallo di secolo, e vede coinvolto un ospedale che, in vista di una modifica normativa che avrebbe previsto uno sfavorevole cambio del regime Iva delle operazioni, decideva di emettere fatture per “acconti generici”.
In particolare, l’acquisto di certi prodotti effettuato fino al cambio della normativa Iva, annunciata, avrebbe dato diritto alla detrazione, mentre dopo la modifica normativa lo stesso diritto sarebbe stato precluso.
Fu così stipulato un accordo nel quale era previsto che l’acquirente doveva versare il prezzo complessivo alla stipula dello stesso, a fronte della possibilità di acquistare dei prodotti contenuti in un elenco, modificabile di comune accordo tra le parti; in tale contratto il venditore cedeva i prodotti richiesti dall’acquirente, fino al raggiungimento di un corrispettivo uguale a quello fissato nel contratto, fatta salva la possibilità di recesso di ciascuna delle parti, che avrebbe comportato la restituzione della parte di prezzo pagato che non corrispondeva a prodotti consegnati.
La Corte di Giustizia evidenzia che la normativa impone, in linea di principio, di assoggettare ad imposta gli acconti, in quanto nel momento di pagamento dello stesso l’imposta diventa esigibile, ancorché l’operazione non sia ancora effettuata.
La nostra normativa, nel prevedere che una cessione di beni si considera comunque effettuata all’atto del pagamento del corrispettivo, limitatamente all’importo pagato, recepisce correttamente la direttiva europea, secondo cui il pagamento anticipato di una cessione di beni che avverrà successivamente (con il passaggio della proprietà del bene o con il trasferimento dei diritto di disporne come proprietario), deve dare luogo all’esigibilità dell’Iva sulla cessione, ancorché non ancora avvenuta, limitatamente all’importo pagato.
La Corte, tuttavia, evidenzia che “affinché l’imposta possa diventare esigibile in una tale circostanza (pagamento dell’acconto n.d.r.), occorre che tutti gli elementi qualificanti del fatto generatore, vale a dire la futura cessione o la futura prestazione siano già conosciuti e dunque, (…) che nel momento del versamento dell’acconto, i beni o i servizi siano specificamente individuati”.
In sostanza, la Corte conclude che (paragrafo 50 della sentenza) “non si possono assoggettare ad Iva gli acconti versati per cessioni di beni o per prestazioni di servizi non ancora chiaramente individuate”.
Pertanto, conclude la Corte, non devono essere considerati acconti da assoggettare ad Iva i pagamenti anticipati di una somma forfettaria versata per beni individuati in modo generico in un elenco che può essere modificato in qualsiasi momento di comune accordo dall’acquirente e dal venditore e dal quale l’acquirente potrà eventualmente scegliere articoli, sulla base di un accordo da cui può recedere unilateralmente in qualunque momento, recuperando la totalità del pagamento anticipato inutilizzato.
In sostanza, il pagamento di somme di denaro a fronte di un contratto che non individua nel dettaglio la cessione di beni o la prestazione di servizi da eseguirsi, deve essere considerata una cessione di denaro fuori dal campo di applicazione dell’Iva ai sensi dell’articolo 2, comma 3, lettera a) (cessione di denaro o crediti in denaro).
Tornando alla risposta ad interpello, è d’obbligo sottolineare queste differenze con la sentenza della Corte di Giustizia: nella sentenza della Corte di giustizia viene data importanza al fatto che i beni non sono ancora individuati, anche se, da quanto emerge dalla causa, gli stessi sono assoggettati alla medesima aliquota Iva.
Nella istanza di interpello, invece, non è chiaro se siano i servizi da rendere che non erano ancora determinati (ed in tale caso l’acconto non doveva essere assoggettato ad Iva), oppure se non fosse ancora chiaro quale fosse l’aliquota Iva da applicare a tali servizi.