AIDC: Norma di Comportamento n. 195
di Federica FurlaniLa norma di comportamento n. 195 dell’Associazione Italiana Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, dedicata alla “Modalità di addebito dell’Iva accertata e di rettifica in caso di mancato pagamento”, affronta il problema legato al mancato pagamento da parte del cliente dell’importo dell’Iva accertata addebitatagli dal soggetto passivo a titolo di rivalsa.
Ricordiamo che il tema della possibilità di rivalsa Iva a seguito di accertamento è disciplinato dall’articolo 60, comma 7, DPR 633/1972, modificato dall’articolo 93 del D.L. 1/2012 a seguito della procedura di infrazione n. 2011/4081 avviata contro l’Italia dalla Commissione europea, che dispone: “Il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi. In tal caso, il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione”.
In sostanza, in caso di accertamento/rettifica da parte del fisco, il fornitore ha diritto di rivalersi dell’imposta reclamata dall’Amministrazione finanziaria nei confronti del proprio cliente, alle seguenti condizioni:
- l’atto di accertamento sia stato definito, anche attraverso il ricorso a strumenti deflattivi del contenzioso, o non sia stato impugnato o a seguito del passaggio in giudicato della sentenza nel caso di presentazione di ricorso;
- sia avvenuto il pagamento della maggior imposta, delle sanzioni e degli interessi maturati, anche ratealmente (la circolare n. 35/E/2013 ha precisato che, nel caso di rateazione, il diritto alla rivalsa può essere esercitato progressivamente in relazione al pagamento delle singole rate).
L’Amministrazione finanziaria – ai fini dell’esercizio della rivalsa – richiede l’emissione di una fattura ai sensi dell’articolo 21, comma 1, DPR 633/1972, se l’operazione accertata non era stata originariamente fatturata, o una nota di variazione ex articolo 26, comma 1, DPR 633/1972, nel caso in cui l’accertamento si riferisca ad operazioni originariamente fatturate. Entrambi i documenti devono contenere, oltre agli altri dati previsti dalla legge, gli estremi identificativi dell’atto di accertamento.
Il citato articolo 60, comma 7, DPR 633/1972 nulla prevede in relazione all’obbligo del cliente di corrispondere l’ammontare oggetto di rivalsa, chiarendo che la possibilità di esercitare il diritto di detrazione richiede comunque il previo pagamento al fornitore delle somme addebitategli.
Può, dunque, verificarsi che il cliente, cui la maggiore Iva sia stata addebitata a titolo di rivalsa, rinunciando alla detrazione, non proceda al pagamento al fornitore della maggiore imposta; il fornitore, per non rimanere inciso da quanto versato all’Erario, deve poter procedere alla rettifica in diminuzione della maggiore imposta accertata, oggetto di rivalsa ma non corrisposta dal cessionario o dal committente.
Si rende pertanto applicabile il principio di rettifica in diminuzione dipendente dal mancato pagamento delle somme addebitate, alle condizioni stabilite dall’articolo 26, comma 2, DPR 633/1972: l’emittente del documento ha diritto di emettere una nota di variazione ai fini Iva e poiché la riqualifica dell’operazione, a seguito di accertamento, si manifesta con effetto retroattivo al momento della sua effettuazione (ex tunc), l’importo addebitato al cliente, quale derivante dall’atto di accertamento, seppur riferito all’Iva, deve essere trattato come integrazione del corrispettivo originariamente pattuito.
La norma di comportamento propone il seguente esempio: operazione effettuata per il corrispettivo di Euro 100.000, considerata esente nel momento originario e successivamente accertata dall’Agenzia come imponibile ai fini Iva. Il soggetto passivo addebita al suo cliente, a titolo di rivalsa Iva, l’importo di Euro 22.000, pari all’imposta dovuta ad aliquota 22%, sicché l’ammontare del corrispettivo dell’operazione lievita da Euro 100.000 ad Euro 122.000, a fronte del quale il cliente ha già corrisposto Euro 100.000 che, per effetto della riqualifica ex tunc dell’operazione, deve intendersi “Iva compresa”, cioè, come se il cliente avesse versato Euro 81.967 di imponibile e Euro 18.033 per Iva.
Se il cliente non provvede al pagamento, il fornitore ha pertanto diritto di recuperare l’Iva inglobata in tale importo, pari ad Euro 3.967.
La differenza tra quanto versato all’Erario (Euro 22.000) e quanto recuperato con rettifica ai sensi dell’articolo 26, comma 2, DPR 633/1972 (Euro 3.967), è deducibile ai fini delle imposte sul reddito come perdita su crediti secondo le regole ordinarie del Tuir.