Amministratore: stop a compensi spropositati
di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365In un precedente articolo si è data evidenza come la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24379, depositata il 30 novembre 2016, si sia espressa sul tema delicato dei compensi corrisposti all’amministratore, giungendo a conclusioni molto significative soprattutto per limitare le varie interpretazioni che spesso si spingono anche a giustificare decisioni che sembrano, a volte in modo palese, non ragionevoli nell’ottica della corretta gestione aziendale.
Ebbene nel presente contributo si intendono sviluppare ulteriori considerazione sulla questione.
L’argomento del contendere è la sindacabilità, o meno, dell’ammontare stabilito a titolo di compenso per l’amministratore, che secondo parte della dottrina e anche di svariate decisioni di merito non è facoltà concessa all’Amministrazione finanziaria. In realtà appare del tutto evidente che il primo approccio deve essere giudizievole, nel senso che è sempre preferibile, per l’impresa, adottare comportamenti non sindacabili con facilità da parte dell’Agenzia delle Entrate, pertanto non esagerando in determinate forme di remunerazione ovvero procedere con “sbalzi” clamorosi circa i compensi erogati. Ad esempio, se è vero che la disciplina normativa in materia di rimborsi spese prevede diverse ipotesi di esenzione da tassazione o comunque determinazioni forfettarie dei fringe benefits erogati all’amministratore, è altrettanto vero che stabilire compensi pari a 10 mila euro e erogare rimborsi di 50 mila euro esentati da tassazione dispone l’Amministrazione finanziaria ad un controllo accurato sull’inerenza e veridicità dei rimborsi medesimi, dovendo dunque aversi comprovata documentazione giustificatrice. Allo stesso tempo, se è vero che il TFM erogato può scontare una tassazione separata in capo all’amministratore al ricorrere di determinate circostanze, con l’indubbio vantaggio di applicare l’aliquota media del biennio precedente, è altrettanto vero che stabilire un TFM spropositato rispetto al compenso, con magari un andamento nel tempo “inversamente proporzionale” (ossia crescita del TFM e contemporanea riduzione del compenso), rappresenta un chiaro segnale di finalità elusiva, rispetto al quale qualsiasi funzionario in sede di controllo vorrà approfondire le motivazioni sottostanti.
Volendo essere pratici, una previsione di un adeguato compenso per gli amministratori, costante nel tempo salvo idonei adattamenti (comprovati anche dai risultati raggiunti), accompagnato da documentati rimborsi spese e da una previsione di TFM proporzionata agli stessi compensi, difficilmente sarà oggetto di contestazione, ma forse nemmeno di controllo approfondito, riscontrandosi una sorta di “normalità” del comportamento aziendale. Se invece i rimborsi e l’erogazione del TFM sono sovrastimati rispetto al compenso, o ancora lo stesso compenso è altamente variabile e privo di qualsiasi razionale spiegazione, appare del tutto normale (e soprattutto ad elevata probabilità), che possa emergere una contestazione di carattere fiscale.
Ciò è quanto accaduto nella sentenza n. 24379 del 2016 in commento, che ha affrontato il caso particolare di una società che ha erogato ai propri amministratori dei compensi di ammontare pari a 450 mila euro a fronte di un fatturato complessivo di 600 mila euro, laddove peraltro nell’anno precedente gli stessi compensi si erano attestati a 150 mila euro. La tesi difensiva, condivisa dalla CTR, è stata appunto la non possibilità, per il Fisco, di contestare l’ammontare di compenso erogato agli amministratori, dovendo peraltro tener presente che gli stessi avevano sottoposto a tassazione, sul piano personale, i medesimi importi. Questa posizione è stata completamente ribaltata dai giudici di legittimità, che hanno cassato la sentenza rinviando a nuova sezione della CTR, posto che la non previsione di limiti all’erogazione di compensi agli amministratori non consente alla società di derogare alle regole basilari di determinazione del reddito d’impresa, in primo luogo l’inerenza dei costi sostenuti, da valutare anche in termini di proporzione, congruità ed adeguatezza dei costi stessi. In questi termini si esprime la suprema Corte: “Questo Collegio intende dare continuità alla prevalente giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in tema di determinazione del reddito d’impresa, rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa; pertanto la deducibilità dei compensi degli amministratori (….) non implica che l’amministrazione finanziaria sia vincolata alla misura indicata nelle deliberazioni della società, competendo all’ufficio la verifica dell’attendibilità economica di tali dati”. Dal che discende, continuano i supremi giudici, che non è sufficiente fornire la prova della veridicità del costo sostenuto, ma anche dimostrare “(…) l’inerenza del costo, anche in senso quantitativo, alla produzione di ricavi (…)”.
In definitiva, è legittima la contestazione, anche parziale, di costi che sembrano sproporzionati; spetta invece alla società dimostrare la ragionevolezza del costo sostenuto. Ciò conferma, in maniera inequivocabile, che i comportamenti assunti devono essere sempre coerenti e logici, per consentire un’adeguata difesa in caso di eventuale contestazione.
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9 Dicembre 2016 a 10:43
Mi stupisce il commento quasi condiscendente del dott. Tozzi a questa sentenza. In questo modo potrà essere sindacato qualunque costo che a mera discrezione dell’Agenzia Entrate sia considerato irragionevole salvo, certo, la possibilità dell’impresa di difendersi in contenzioso per dimostrare la ragionevolezza del costo (!?). Visto la piega di certi filoni di decisioni della Corte di Cassazione, con quale animo il contribuente andrà in contenzioso a tentare la propria difesa? Risultato: cornuto e mazziato!
Impostata e in questo modo, la questione a me appare un obbrobrio giuridico; il proprio alveo naturale non sarebbe quello dell’elusione? che senso ha cassare un costo ad una impresa quando non vi sono implicazioni a danno delle casse erariali ma, anzi, ne traggono un vantaggio (unitamente a quelle degli enti di previdenza): cui prodest?
La caccia alle streghe dell’Agenzia (con l’avallo della Suprema Corte) continua!