Ammissibile l’appello proposto da soggetto non presente in primo grado
di Angelo GinexLa legittimazione ad impugnare la sentenza spetta, indipendentemente dalla realtà processuale, anche a chi sia qualificabile come parte in base alla stessa sentenza impugnata, con la conseguenza che il soggetto direttamente raggiunto da una sentenza, che si ponga all’esito di un giudizio nel quale non sia stato convenuto, ha diritto di impugnare tale sentenza. È questo il sorprendente principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza del 30 maggio 2017, n. 13584.
La vicenda trae origine dalla proposizione di un ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa dalla competente Commissione tributaria regionale, la quale, in riforma della decisione di primo grado, aveva ritenuto inammissibile il ricorso proposto dal contribuente avverso l’atto di iscrizione ipotecaria ex articolo 77 D.P.R. 602/1973 e la prodromica cartella di pagamento, in quanto proposto oltre il termine di 60 giorni dalla data in cui egli aveva avuto contezza della pretesa tributaria a suo carico, mediante rilascio di estratto di ruolo.
Tra i motivi di impugnazione della predetta sentenza il contribuente, per quanto qui di interesse, lamentava la violazione dell’articolo 339 c.p.c., per non avere il giudice di secondo grado rilevato l’inammissibilità dell’appello, in quanto proposto da un soggetto – l’Agenzia delle Entrate – che non aveva partecipato al giudizio di primo grado, né poteva, a suo avviso, ritenersi litisconsorte necessario in una controversia concernente la mancata notificazione della cartella esattoriale, sulla cui base era stata iscritta ipoteca.
Nella pronuncia in commento, i Giudici di Piazza Cavour hanno affermato che, sebbene l’Agenzia delle Entrate non avesse partecipato al giudizio di primo grado, in quanto non evocata dal contribuente, né chiamata su ordine del giudice ad integrazione del contraddittorio, tale estraneità al giudizio non l’avrebbe privata della legittimazione ad appellare una sentenza che – emessa (anche) nei suoi riguardi in quanto erroneamente ritenuta parte dal giudice di primo grado – era idonea, se passata in giudicato, a renderle opponibile la pronuncia di insussistenza, ovvero invalidità, della pretesa tributaria dedotta in giudizio.
Ciò, sulla base della considerazione per la quale “la legittimazione ad impugnare la sentenza spetta a chi abbia assunto la veste di parte nel giudizio di merito, che discende non solo dalla materiale partecipazione ad esso del soggetto interessato o dalla sua formale chiamata in causa, originaria o sopravvenuta, ma anche dalla qualificazione in termini di parte desumibile, indipendentemente dalla sua rispondenza alla realtà processuale, dalla stessa sentenza impugnata“, con la conseguenza che il soggetto direttamente raggiunto da una sentenza, che si ponga all’esito di un giudizio nel quale non sia stato convenuto, ha diritto di impugnare tale sentenza.
La pronuncia consolida il filone giurisprudenziale inaugurato dalla sentenza n. 20789/2014, con cui la Corte di Cassazione aveva statuito che “la legittimazione a proporre l’impugnazione, o a resistere ad essa, spetta solo a chi abbia assunto la veste di parte nel giudizio di merito, secondo quanto risulta dalla decisione impugnata, tenendo conto sia della motivazione che del dispositivo, a prescindere dalla sua correttezza e corrispondenza alle risultanze processuali nonché alla titolarità del rapporto sostanziale, purché sia quella ritenuta dal giudice nella sentenza della cui impugnazione si tratta”.
Ad avviso di chi scrive, la pronuncia suscita qualche perplessità, poiché la Suprema Corte, pur escludendo che l’Agenzia delle Entrate sia priva della veste di litisconsorte, contrariamente a quanto prescritto dall’articolo 14 D.Lgs. 546/1992, secondo cui “se l’oggetto del ricorso riguarda inscindibilmente più soggetti, questi devono essere tutti parte nello stesso processo e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni di essi”, legittima l’impugnazione proposta da un soggetto che non ha partecipato materialmente al giudizio di merito, ammettendo, di fatto, la possibilità di un’integrazione officiosa in sentenza.