Analisi di comparabilità: la “mediana” non è un dovere
di Fabio LanduzziNell’ambito delle verifiche condotte dall’Amministrazione in materia di prezzi di trasferimento, in modo particolare quando il metodo applicato dal contribuente – e magari condiviso dagli organi verificatori – è il “Transactional Net Margin Method” (in sigla, Tnmm), si osserva non di rado l’assunzione rigida del valore della “mediana” come punto fermo ed univoco per il test di congruità della profittabilità della società oggetto di controllo, con la conseguenza che ogni scostamento da tale valore statistico determina materia imponibile posta in contestazione in quanto ritenuta espressiva di una policy di transfer pricing non aderente a principi di libera concorrenza.
Senza entrare in questioni troppo tecniche, si può solo ricordare che in statistica, data una distribuzione di un determinato carattere quantitativo ordinabile in base ad un determinato criterio (nel caso che ci interessa, quindi, la distribuzione riguarda i valori assunti dagli indici di profittabilità dei soggetti selezionati quali “comparabili”), la mediana è quel valore che viene assunto dalle unità statistiche che si trovano nel mezzo della distribuzione stessa, quindi il valore espressivo del 50° percentile.
Ritornando sul terreno delle analisi di comparabilità, Assonime, nella Nota n. 9/2014, ebbe modo di affermare che, esattamente in aderenza alle indicazioni contenute nelle Linee Guida Ocse, quando il valore assunto dall’indicatore di profitto dell’impresa si colloca nello scarto interquartile – ovvero tra il 25° e 75° percentile – del range dei risultati del campione comparabili, l’individuazione di un altro, diverso e puntuale valore – quale è frequentemente la mediana – come termine univoco di misurazione della non congruità della profittabilità dell’impresa risulta essere arbitrario; Assonime concludeva infatti affermando che deve essere ritenuto accettabile un valore di profittabilità – misurato dal prescelto indicatore – quando rientri nell’intervallo interquartile senza che venga preteso il posizionamento su di un punto esatto del range (tipicamente, la mediana). In altri termini, ogni punto dell’intervallo può essere espressivo di un valore equo, sempre rammentando che, usando le stesse parole dell’OCSE, il transfer pricing “non è una scienza esatta”.
Ebbene, questo tema è stato oggetto di una interessante sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano, n. 8301 del 3 novembre 2016. Il caso posto all’attenzione dei Giudici milanesi riguardava un’impresa italiana, commissionaria per la vendita in Italia di un gruppo multinazionale, la quale era stata oggetto di un accertamento in materia di prezzi di trasferimento nell’ambito del quale, proprio uno degli argomenti addotti dai verificatori, era stato quello relativo all’assunzione di un valore dell’indicatore di profitto tratto dall’analisi di comparabilità rivisitata dall’Amministrazione – la quale aveva comunque applicato, come la società, il criterio del Tnmm per la determinazione dei prezzi di trasferimento – pari appunto alla mediana dell’intervallo selezionato. La società, invece, aveva realizzato un profitto operativo che, pur essendo inferiore al valore mediano, si collocava pur tuttavia nel range dei valori scaturiti dall’analisi.
Nel stigmatizzare il comportamento tenuto dai verificatori riguardo a questo aspetto, e quindi nell’accogliere il ricorso della società disponendo l’annullamento dell’accertamento, la CTP di Milano ha sottolineato come prima di decidere se e perché adottare la mediana come valore di riferimento occorre necessariamente considerare il “ruolo, le funzioni e i rischi sostenuti dalla società oggetto di controllo”. L’Agenzia, invece, sottolineano i Giudici milanesi, si era fermata alla affermazione secondo cui la complessità dell’attività dell’impresa e dei prodotti commercializzati, non avrebbe consentito un’analisi quantitativa e quindi la situazione sarebbe stata tale da rendere opportuno “l’utilizzo di strumenti statistici di tendenza centrale”: appunto, la mediana. Secondo i Giudici invece, proprio un’analisi più approfondita delle condizioni di esercizio dell’attività dell’impresa verificata avrebbe condotto ad assumere come rappresentativo il posizionamento al primo interquartile con la conseguenza che la profittabilità realizzata dalla società, anche per gli altri motivi elaborati nella sentenza citata, è stata ritenuta aderente al principio di libera concorrenza.