Ancora sullo scopo di lucro nello sport
di Guido MartinelliUna recente sentenza della CTR di Roma (sez. 6 n. 4273/VI/16 del 28.06.2016) ci consente di tornare (si veda “Lo sport e l’assenza di scopo di lucro”) su uno dei punti cardine della disciplina del terzo settore in generale e, in particolare, del mondo dello sport: il concetto di assenza di scopo di lucro.
Il legislatore tributario, infatti, non lega il diritto all’ottenimento di determinate agevolazioni previste per il terzo settore alle finalità non lucrative dell’ente (obiettivo che invece si propone la nuova l. 106/2016).
Il Giudicante, nella decisione in esame, ha respinto l’appello del contribuente. Infatti, sul presupposto che “nel caso de quo l’accertamento ha riscontrato numerosi elementi che hanno portato l’Ufficio a ritenere che l’associazione verificata svolgesse attività commerciale”, così conclude: “sulla base di tali elementi, così come rilevato dai giudici di primo grado non può ritenersi che la ricorrente svolga attività senza fini di lucro”.
Ricordando, incidentalmente, che l’articolo 149 del Tuir prevede espressamente che le sportive non perdano la loro qualificazione di ente non commerciale, indipendentemente dal tipo di attività svolta, svolgere una attività commerciale non è collegabile in alcun modo alla eventuale distribuzione di utili. Pertanto lo scopo di lucro si consegue non per avere avuto ricavi imponibili, ma a seguito della distribuzione di “profitti” agli associati.
Ne consegue, ad esempio, che l’esercizio di attività commerciali non pregiudica il diritto al godimento dei benefici della L. 398/1991 il cui presupposto, lo ricordiamo, è quello di essere un ente senza scopo di lucro e non necessariamente un ente non commerciale.
Ma i veri problemi iniziano quando si analizza il limite del c.d. lucro indiretto.
Perché qui, ad esempio, per le sportive sorge un problema fino ad oggi sicuramente poco analizzato. Ipotizzando che in un sodalizio sportivo (associazione o società che esso sia) siano associati anche gli atleti, qual è il limite tra il legittimo compenso loro riconoscibile ex articolo 67, primo comma, lett. m), del Tuir e il passaggio alla distribuzione indiretta di profitti attraverso il compenso loro riconosciuto?
Sia l’articolo 10 del D.Lgs. 460/1997 sulle ONLUS, al cui comma 6 si prevedono i casi di distribuzione indiretta di utili (norma che, per prassi amministrativa, trova applicazione nei confronti di tutte le associazioni), che l’articolo 3 del D.Lgs. 155/2006, in materia di impresa sociale, che disciplina la medesima fattispecie, dopo aver ribadito il principio esprimono una casistica sui limiti dei compensi agli amministratori e/o ai dipendenti delle associazioni da non superare per evitare di cadere nella distribuzione indiretta di utili.
Nulla si dice in materia di compensi agli associati “atleti”. Pertanto gli agonisti quotisti di una SSD o associati di una ASD possono ricevere compensi illimitati senza cadere nella distribuzione indiretta di utili? Probabilmente ci troviamo di fronte all’ennesimo “baco” del sistema del divieto di scopo di lucro nello sport.
Ma il tema offre altri due spunti di riflessione. Il comma tre dell’articolo 90 della L. 289/2002 ha esteso l’area dei compensi sportivi di cui all’articolo 67, primo comma, lett. m), Tuir alle collaborazioni coordinate e continuative non professionali di natura amministrativo – gestionale. Il dubbio che continua a rodermi è: se la collaborazione amministrativo – gestionale è occasionale (ad esempio la raccolta delle iscrizione per la partecipazione ad un campus sportivo estivo), pertanto episodica e di breve durata, io potrò riconoscere i compensi defiscalizzati o dovrò trattarli come compensi occasionali (e pertanto assoggettarli alla ritenuta d’acconto) o come prestazioni accessorie? È chiaro che il tenore letterale della norma imporrebbe la differenziazione tra il trattamento occasionale e quello continuativo, penalizzando sotto il profilo fiscale il primo; tuttavia, la logica e il buon senso lo impedisce.
L’ultima nota sul tema dello scopo di lucro riguarda la possibilità di prevedere, negli statuti (in special modo quelli delle società di capitali sportive) la possibilità di prestiti “fruttiferi” da parte dei soci.
Si ritiene, anche in questo caso, facendo riferimento alla disciplina del lucro indiretto sopra citata, di poter rispondere in termini positivi.
Ma, evidentemente, anche in questo caso con un limite. E proprio l’analisi del limite ha un aspetto curioso.
Infatti la disciplina sulle ONLUS prevede che costituisce lucro indiretto: “la corresponsione a soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, di interessi passivi, in dipendenza di prestiti di ogni specie, superiori di 4 punti al tasso ufficiale di sconto”. Con ciò legittimando prestiti fruttiferi di interessi da parte dei soci.
Stranamente, invece, l’articolo 3 del D.Lgs. 155/2006 ha previsto che costituisce lucro indiretto: “La remunerazione degli strumenti finanziari diversi dalle azioni o quote, a soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, superiori di cinque punti percentuali al tasso ufficiale di riferimento”. Per quale ragione il legislatore, dopo alcuni anni, ha innalzato di un punto il tasso di interessi al di sotto del quale la remunerazione dei prestiti non si considera lucro indiretto, resta un mistero.
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