Ancora sulle plusvalenze realizzate dalle associazioni in 398
di Guido MartinelliMarta SaccaroCi siamo di recente soffermati, su queste colonne, su alcuni aspetti problematici che interessano le associazioni che applicano le regole della L. n. 398/1991. Nello specifico, è stato offerto qualche spunto di riflessione in merito alle modalità di rilevazione delle plusvalenze e di tassazione delle stesse. Come si ricorderà, infatti, per coloro che applicano il regime in parola, le plusvalenze non possono beneficiare di alcuna forfettizzazione: come infatti prevede il comma 5 dell’art. 2 della L. n. 398/1991, “in deroga alle disposizioni contenute nel … [TUIR], il reddito imponibile dei soggetti di cui all’articolo 1 è determinato applicando all’ammontare dei proventi conseguiti nell’esercizio di attività commerciali il coefficiente di redditività del 3 per cento e aggiungendo le plusvalenze patrimoniali”.
La norma opera quindi una netta distinzione tra i “proventi conseguiti nell’esercizio di attività commerciali” e le “plusvalenze patrimoniali”. Nello specifico, a queste ultime è attribuito un criterio di tassazione diverso da tutte le altre entrate di carattere commerciale. Mentre infatti per queste ultime è riconosciuta una detrazione forfettaria delle spese (che, per presunzione, si ipotizzano rappresentare il 97% dei ricavi) le plusvalenze devono essere determinate in maniera analitica.
E qui sorgono i problemi.
In primo luogo, ed in via discriminante, è necessario osservare che costituiscono plusvalenze imponibili solo quelle realizzate nell’ambito dell’attività commerciale restando completamente irrilevanti, ai fini fiscali, quelle connesse all’attività istituzionale. La logica è sempre quella che accomuna il criterio di tassazione degli enti non commerciali a quello delle persone fisiche: per entrambe le categorie soggettive esiste, infatti, una sfera di attività “privata” (quella istituzionale degli enti) che, in linea generale, non determina conseguenze in termini di tassazione. Si pensi al caso in cui il privato riesca a vendere la propria bicicletta – magari a sua volta acquistata usata – ad un prezzo maggiore rispetto a quello di acquisto perché si è rivolto ad un collezionista che desidera in modo particolare quel “pezzo”. E’ pacifico che in un caso come questo non si determinano conseguenze fiscali dalla plusvalenza realizzata.
Anche per gli enti non commerciali – e per le associazioni che applicano il regime della L. n. 398/1991 – è prevista una netta separazione tra beni appartenenti all’ambito istituzionale e a quello commerciale. Nello specifico, il comma 3 dell’art. 144 del Tuir invita tutti gli enti a predisporre l’inventario dei beni afferenti la sfera commerciale, secondo le disposizioni descritte dall’art. 65, commi 1 e 3-bis dello stesso Testo Unico. L’individuazione dei beni relativi all’impresa dell’ente non commerciale consente di “monitorare” tutti i loro movimenti e di rilevare anche l’eventuale plusvalenza derivante dalla cessione. Nel dettaglio, se il bene risulta iscritto nell’inventario al costo di acquisto la plusvalenza è facilmente determinabile nella differenza tra il prezzo di vendita e quello di acquisto. Questa cessione, in quanto effettuata nell’ambito dell’attività commerciale, dovrà essere assoggettata ad IVA (va da sé, quindi, che la cessione di un bene istituzionale non è soggetta all’imposta sul valore aggiunto e non deve essere regolarizzata con una fattura essendo sufficiente una ricevuta all’atto dell’incasso della somma pattuita).
L’iscrizione del bene nell’inventario ritorna utile anche nel caso in cui il bene successivamente ceduto non sia stato acquistato ma sia stato in qualche modo “prodotto internamente”. In tal caso, secondo le regole generali, nell’inventario dovranno essere iscritti, di anno in anno, i costi capitalizzati sostenuti per la produzione del bene.
Le cose si complicano per i soggetti che applicano la L. n. 398/1991 che sono esonerati dall’obbligo di tenere le scritture contabili (l’unico adempimento obbligatorio, com’è noto, è quello di tenere il prospetto conforme al modello approvato con D.M. 11 febbraio 1997, opportunamente integrato). Questa circostanza rende sicuramente difficile la ricostruzione del costo del bene relativo all’attività commerciale in caso di una sua successiva cessione e la conseguente determinazione dell’eventuale plusvalenza. E se, quando il bene è stato acquistato, è comunque possibile risalire alla fattura di acquisto – si ricorda che i soggetti in 398 hanno comunque l’obbligo di numerare e conservare le fatture di acquisto – le cose si complicano quando il bene ceduto è stato “autoprodotto”. Il caso tipico di scuola è quello di un’associazione sportiva dilettantistica che ha curato il proprio “vivaio” e che riceve l’offerta per la cessione di un giocatore. In questa circostanza, sarà necessario ricostruire i costi sostenuti ogni anno per la “produzione” del cespite ceduto. Nell’esempio sopra accennato, si osserva che la ricostruzione dovrà riguardare i costi capitalizzabili e, quindi, i costi di struttura e gestione del settore giovanile delle società, intendendosi per tali:
- i premi di preparazione corrisposti per il tesseramento di giovani atleti;
- i costi per vitto, alloggio e trasporto con riferimento alle gare disputate dalle squadre giovanili;
- i rimborsi spese corrisposti agli atleti del settore giovanile (compresi eventuali costi contrattualizzati);
- i compensi ed i rimborsi spese corrisposti ad allenatori, istruttori e tecnici del settore giovanile;
- i costi connessi alla stipulazione di assicurazioni contro gli infortuni con riferimento all’attività degli atleti del settore giovanile;
- le spese sanitarie sostenute a favore degli atleti del settore giovanile.
In pratica, si tratta dei costi di struttura e gestione riferiti all’attività giovanile, con esclusione, quindi – anche in forma indiretta – dei costi generali o amministrativi.
Per chi è in 398, quindi, la determinazione della plusvalenza conseguente alla cessione di un bene non acquistato ma “autoprodotto” costituisce senz’altro una complicazione che, per evitare contestazioni di sorta, impone, contrariamente all’assunto che in 398 non vi siano adempimenti contabili da rispettare, una ricostruzione il più possibile analitica delle spese sostenute nel passato.