Ancora sull’onere della prova nelle cessioni comunitarie
di Comitato di redazioneTra le tante questioni controverse che sono emerse con rilevanza negli ultimi anni, certamente va ricordata quella attinente le condizioni da rispettare per poter “tranquillamente” emettere una fattura non imponibile per cessione comunitaria di beni.
Come si ricorderà, la vicenda è rimasta in evidente ombra per molti anni dopo l’introduzione del principio di tassazione a destino nel paese in cui i beni vengono immessi in consumo. La gran parte degli operatori si soffermava in modo più evidente sulla necessità di fornire la prova per le operazioni di esportazione.
Oggi, invece, il trend si è invertito, anche per l’introduzione dei meccanismi di sorveglianza telematica che presiedono le dogane e per la rivitalizzazione dell’importanza dei requisiti che debbono caratterizzare le cessioni UE (presenza di due operatori IVA, onerosità, effettivo trasporto in altro paese comunitario).
I due nervi scoperti sono, evidentemente:
- la certezza in merito alla qualifica di operatore della controparte acquirente;
- la prova del trasporto dei beni.
Sul primo aspetto si è registrata una evoluzione giurisprudenziale a “parabola”; dapprima sembrava indispensabile che vi fosse la “targa” europea della controparte, vale a dire l’identificativo IVA del paese di ubicazione. In un secondo momento, si è poi consolidato un orientamento meno formalista e decisamente più sostanziale, teso a considerare possibile la presenza di un soggetto “abilitato” alle operazioni comunitarie anche in presenza di patologie sul numero identificativo.
Di contorno, come altresì si ricorderà, la vicenda dell’iscrizione al VIES del soggetto estero, vissuta come requisito essenziale da parte delle Entrate e riconosciuto, invece, come elemento che facilita la prova a carico del cedente nazionale dalla giurisprudenza (prima comunitaria e poi anche nazionale). Per dire che, ancora, siamo convinti che possa esistere una operazione comunitaria anche senza che i soggetti risultino iscritti al VIES stesso.
Sul secondo aspetto, vale a dire la prova dell’effettivo trasporto dei beni a destinazione, si è maturata una precisa convinzione degli addetti ai lavori: si deve essere in grado di provare, con qualsiasi mezzo convincente, che i beni sono stati davvero destinati all’acquirente estero, così che si possa escludere che i medesimi possano essere stati immessi in consumo in Italia (ad esempio) senza assolvimento dell’imposta.
La prova in merito alla movimentazione fisica sarà tanto più semplice nelle ipotesi in cui il trasporto venga curato direttamente dal cedente, poiché tale ultimo soggetto avrà a disposizione la documentazione probatoria per poter dimostrare la spedizione (meglio ancora se avvenuta a mezzo di corriere). Diversamente, ove il trasporto sia curato dall’acquirente, non pare esservi altra soluzione che accordarsi contrattualmente affinché si possa disporre di documenti in grado di dimostrare lo spostamento (anche se tali documenti, per gli usi commerciali in vigore, sarebbero di esclusiva pertinenza dell’acquirente). In sostanza, non basta avere la prova che la merce è stata consegnata al vettore, ma bisogna essere in grado di conoscere se tale soggetto abbia fisicamente recapitato i beni all’acquirente finale.
Le riflessioni si cui sopra sono emerse a seguito della lettura di una recente sentenza della CTR Toscana – Firenze (n. 1577 del 20.09.2016) che ha trattato proprio tale materia.
A prescindere dalle questioni attinenti la tempestiva presentazione dell’appello del contribuente (che non interessano in questa sede), i giudici sono stati chiamati a pronunciarsi, nel merito, sulla possibilità di qualificare come non imponibili alcune cessioni per le quali:
- l’identificativo UE dell’acquirente è risultato errato, o comunque non esistente;
- non si era in grado di provare l’effettività del trasporto a destino.
La tecnica difensiva perseguita non è stata vincente, visto che ha portato al rigetto delle censure del contribuente ed alla condanna alla spese, peraltro in misura non trascurabile (circa 8.000 euro).
Infatti, contestando la decisione della CTP (già contraria al contribuente) ci si è limitati ad affermare che “le più recenti sentenze di legittimità hanno confermato la non imponibilità anche nei casi in cui venga riportato un codice identificativo errato, qualora venga dimostrata la effettività delle operazioni. Nel nostro caso tutte le imprese tedesche ed olandesi, a cui nome sono state emesse le fatture erano in possesso di un esistente e valido numero di identificazione VAT e le stesse hanno ricevuto regolarmente le calzature loro inviate”.
Bisogna che siamo tutti concordi, allora, nel precisare che quanto affermato non basta. Infatti, i Giudici regionali precisano che la richiamata giurisprudenza si è limitata a statuire che la mancata indicazione del codice identificativo, al pari dell’indicazione di un codice identificativo errato, rappresenta una violazione formale, non idonea ad incidere sul regime impositivo dell’operazione, “se il cedente è in grado di dimostrare la sussistenza dei requisiti sostanziali che ne qualificano la natura “intracomunitaria” dal punto di vista oggettivo, soggettivo e territoriale”.
Ed ancora: “Con particolare riguardo al requisito soggettivo è pur sempre necessario che l’operatore nazionale sia in grado di fornire indicazioni idonee a dimostrare che la controparte non residente sia un soggetto passivo che agisce in quanto tale nell’ambito dell’operazione di cui trattasi. In difetto di tale dimostrazione, infatti, la violazione assume uno specifico rilievo ai fini del diniego del regime dì non imponibilità applicato alla cessione, in quanto impedisce di provare la sussistenza di uno dei requisiti sostanziali dell’operazione costituito dallo status di soggetto passivo IVA del cessionario”.
La medesima rigidità viene anche applicata al tema della prova sul trasporto, ove si afferma che: “Peraltro nel nostro caso la contribuente non ha offerto alcuna prova anche dal punto di vista oggettivo, in merito all’effettivo trasporto dei beni dall’Italia ai paesi di destinazione”.
Possiamo allora concludere che, in materia, di controverso resta poco o nulla: il contribuente può essere “perdonato” in merito a mere violazioni che potremmo definire formali, ma solo nel caso in cui sia in grado di provare in modo concreto ed oggettivo la sussistenza di tutti i requisiti dell’operazione comunitaria. E, su tale aspetto, non ci pare sia proprio opportuno applicare alcuna elasticità.
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