Annullamento dell’atto in autotutela e spese del giudizio
di Luigi Ferrajoli
L’annullamento in autotutela dell’atto impositivo da parte dell’Amministrazione finanziaria nella pendenza del giudizio proposto dal contribuente davanti alla Commissione tributaria per l’annullamento del medesimo atto comporta, ai sensi dell’articolo 46 del D.Lgs. 546/92, la cessazione della materia del contendere che deve essere dichiarata con decreto del presidente o con sentenza della Commissione tributaria.
Ai fini della liquidazione delle spese di giudizio l’articolo 46, comma 3, D.Lgs. 546/92 stabilisce che “le spese del giudizio estinto … restano a carico della parte che le ha anticipate, salvo diverse disposizioni di legge”. Tale norma è stata dichiarata costituzionalmente illegittima per contrasto con il principio di ragionevolezza (articolo 3 Cost.), laddove dispone che le spese del giudizio estinto, non solo nei casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge, ma anche in ogni altro caso di cessazione della materia del contendere, restano a carico della parte che le ha anticipate (Corte Costituzionale sentenza n. 274 del 12/7/2005).
Il principio della soccombenza quale criterio in base al quale il giudice deve decidere sulle spese del giudizio trova, quindi, applicazione anche nelle ipotesi di estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere, quando cioè venga meno l’interesse a coltivare il contenzioso per fatti sopravvenuti che abbiano eliminato la situazione di contrasto tra le parti e, dunque, la necessità della pronuncia giudiziale.
Frequente è il caso in cui l’Amministrazione finanziaria – dopo la proposizione del ricorso – ritiri ed annulli in autotutela l’atto impositivo impugnato dal contribuente, dovendosi in tale caso liquidare le spese secondo il criterio della cosiddetta “soccombenza virtuale” che implica una valutazione figurativa dell’esito della lite ove questa fosse proseguita.
La Corte Costituzionale nella sentenza sopra indicata ha ritenuto, infatti, irragionevole che le spese restassero comunque a carico di chi le aveva anticipate ed, al fine di evitare un ingiustificato trattamento privilegiato alla parte pubblica, ristabilendo il principio della “parità delle armi”, ha ridotto la originaria portata compensativa dell’articolo 46, comma 3, D.Lgs. 546/92, che resta così riservata alle sole definizioni delle pendenze tributarie stabilite dalla legge (istituti premiali o intervenuta conciliazione giudiziale ex articolo 48 D.Lgs. 546/92) parallelamente a quanto previsto per le altre ipotesi estintive quali quelle provate dalla inattività delle parti ex articolo 45 D.Lgs. 546/92 (mancata prosecuzione, integrazione, riassunzione del giudizio nei termini fissati dal giudice o dalla legge).
Pertanto, nell’ipotesi in cui l’Agenzia delle entrate provveda – nella pendenza del giudizio instaurato dal contribuente – ad annullare nell’esercizio del proprio potere di autotutela l’avviso di accertamento impugnato, il regolamento delle spese di lite deve essere deciso dal giudice tributario secondo l’interpretazione costituzionalmente corretta dell’articolo 46, comma 3, D.Lgs. 546/92, per cui il principio secondo cui le “spese dovrebbero rimanere a carico della parte che le ha anticipate” deve essere contemperato dall’esigenza di evitare trattamenti privilegiati per l’Amministrazione finanziaria, la quale potrà essere condannata alla rifusione delle spese di giudizio, che dovranno essere liquidate secondo il criterio della “soccombenza virtuale”, che richiede una valutazione figurativa del probabile esito del contenzioso nell’ipotesi in cui questo fosse proseguito regolarmente (senza il ritiro/annullamento dell’atto impugnato da parte dell’Ufficio).
Tali principi hanno trovato conferma nella recente sentenza n. 577 del 21/2/2014 della Commissione tributaria provinciale di Lecce, la quale, in un contenzioso nel quale l’Agenzia delle entrate si era costituita in giudizio precisando di avere inoltrato alla “Direzione Regionale parere per esercitare legittimamente il potere di autotutela e, conseguentemente provvedere all’annullamento dell’avviso di accertamento de quo, e, quindi, alla sostituzione dello stesso con altro avviso, allo scopo di rimuovere il vizio eccepito dalla società contribuente”, ha stabilito con sentenza – accertata l’esistenza del provvedimento di annullamento dell’avviso di accertamento in contestazione – la cessazione della materia del contendere condannando, tuttavia, l’Amministrazione finanziaria al pagamento delle spese processuali, in tale modo facendo corretta applicazione dell’articolo 46, comma 3, D.Lgs. 546/92 come interpretato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 274 del 12/7/2005.