Apertura delle Entrate sul concetto di esportazione ai fini Iva
di Luca Caramaschi
Con la risoluzione n. 94/E del 13 dicembre scorso l’Agenzia delle entrate ha fornito una interessante interpretazione con riferimento ai trasferimenti di beni all’estero (nel caso specifico negli USA) in regime di “franco valuta”, affermando che gli stessi possono – a determinate condizioni – essere fatturati come non imponibili ex articolo 8 primo comma del D.P.R. n.633 del 1972 (e in quanto tali concorrere alla formazione del plafond, seppur con effetto traslativo posticipato rispetto all’invio delle merci all’estero), anziché essere considerati cessioni di beni che già si trovano allo stato estero e come tali considerate prive del requisito di territorialità ai sensi dell’articolo 7-bis del medesimo decreto.
La pronuncia apparentemente sembra sovvertire una posizione consolidata dell’Agenzia secondo la quale le cessioni effettuate secondo la procedura doganale “franco valuta” risulta priva di uno degli elementi che caratterizzano il concetto di esportazione. E’, infatti, la stessa Agenzia delle entrate che dopo aver affermato nella circolare n. 156/E del 15 luglio 1999 che per ritenere sussistente una cessione all’esportazione non imponibile “è indispensabile non solo la materiale uscita dei beni dal territorio comunitario, ma anche il verificarsi di un trasferimento del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento oltre naturalmente al pagamento di un corrispettivo”, nella successiva risoluzione n. 306/E del 21 luglio 2008 afferma il principio per cui “l’invio di beni all’estero costituisce una mera esportazione “franco valuta” in cui manca uno degli elementi caratterizzanti le “cessioni all’esportazione” di cui al citato art. 8 del D.P.R. n. 633 del 1972 e cioè il trasferimento del diritto di proprietà sui beni stessi”.
Partendo da questi stessi principi, tuttavia, la R.M. 94/E/2013 in commento, assimila alla fattispecie del consignment stock (per l’esame della quale si rimanda alle indicazioni da ultimo fornite con la risoluzione n. 58/E del 5 maggio 2005) il caso del soggetto che invia i propri beni negli USA in regime “franco valuta” per essere successivamente ceduti al proprio cliente statunitense, in virtù dell’impegno contrattualmente vincolante assunto dalle stesse parti fin dall’origine. L’esistenza di un vincolo iniziale all’esclusivo trasferimento in proprietà al cliente estero in relazione alle sue esigenze di approvvigionamento si pone come condizione dirimente al fine di poter assimilare sotto il profilo degli effetti questa fattispecie allo schema contrattuale del consignment stock.
A sostegno di tale soluzione l’Agenzia richiama le conclusioni contenute nella recente dalla Suprema Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 23588 del 20 dicembre 2012 ha sostenuto che “il carattere definitivo dell’operazione, sicché ciò che risulta essenziale (…) al fine di evitare iniziative fraudolente, è la prova (il cui onere grava sul contribuente) che l’operazione, fin dalla sua origine, e nella relativa rappresentazione documentale, sia stata concepita in vista del definitivo trasferimento e cessione della merce all’estero”.
Nella fattispecie in commento quindi, l’effetto traslativo della proprietà dei beni esportati, ancorché differito, non esclude che l’operazione, unitariamente considerata possa considerarsi una cessione all’esportazione non imponibile ai sensi dell’art. 8 primo comma lettera a) del D.P.R. n. 633 del 1972; di conseguenza, il plafond di cui all’art. 8, comma 2 del medesimo decreto si andrà a costituire solo nel momento e nella misura in cui le merci risulteranno prelevate dall’acquirente e debitamente fatturate dal fornitore.
Sotto il profilo degli adempimenti procedurali da porre in essere da parte del cedente al fine di ottenere la non imponibilità dell’operazione di cessione in regime di “franco valuta”, l’Agenzia delle entrate ritiene ancora valide le indicazioni fornite in passato con risoluzione n. 520657 del 4 dicembre 1975. Secondo tale documento di prassi il collegamento tra i beni inviati all’estero in “franco valuta” (con riferimento in particolare a qualità e quantità degli stessi) e quelli ceduti secondo gli accordi contrattuali può essere dimostrato mediante:
- annotazione in un apposito registro, tenuto ai sensi dell’articolo 39 del D.P.R. n.633 del 1972, delle spedizioni dei beni all’estero, riportando per ciascuna annotazione gli estremi del documento di esportazione;
- indicazione nella fattura di vendita, emessa al momento della consegna dei beni all’acquirente, della corrispondente annotazione del registro relativa ai medesimi prodotti.
A ben vedere, quindi, anche esaminando gli adempimenti richiesti dall’Agenzia (e peraltro richiamati dallo stesso istante nel caso in commento), non paiono sussistere sotto il profilo degli effetti differenze così profonde con un istituto, quello del consignment stock, che già pacificamente consente di effettuate l’esportazione in presenza di un effetto traslativo dei beni differito rispetto all’invio degli stessi nello stato estero. Una differenza che, invece, può ravvisarsi nel confronto tra il caso in commento ed il contratto di consignment, sta nelle motivazioni del cedente: la necessità di poter “gestire” e controllare direttamente la merce anche nello stato estero potrebbe certamente costituire un elemento a favore del ricorso allo strumento della cessione in regime di “franco valuta” piuttosto che a quello del consignment stock. Come precisato dalla stessa R.M. 94/E/13, infatti, nel primo caso soggetto deputato allo stoccaggio delle merci è il venditore mentre nell’altro caso è l’acquirente.