Assoggettamento ad IVA: c’è caparra e c’è acconto
di Giovanni ValcarenghiPaolo NoventaUna recente pronuncia della Cassazione (Ordinanza 10306 depositata il 20 maggio scorso) ci offre l’occasione di tornare a trattare il tema delle differenti conseguenze che si producono nel mondo dell’IVA a seconda che l’erogazione di somme legate a preliminari vengano qualificate come caparre o come acconti.
Anticipiamo subito le conclusioni rammentando che la Corte afferma il seguente principio di diritto: ‘‘Il versamento di caparre confirmatorie a corredo di contratti preliminari di compravendite di immobili, rimasti poi inadempiuti, non determina l’insorgenza del presupposto impositivo dell’imposta sul valore aggiunto ’’.
In particolare, una società aveva impugnato un avviso di accertamento dell’Ufficio nel quale, tra l’altro, si contestava il mancato assoggettamento ad IVA di somme riqualificate come acconti – anziché come caparre – a corredo di contratti preliminari rimasti inadempiuti.
Sia la CTP che la CTR avevano, rispettivamente, accolto il ricorso del contribuente (che sosteneva che le somme dovevano essere escluse da IVA in quanto aventi natura risarcitoria) e respinto l’appello dell’Agenzia che, tuttavia, ha proposto ricorso per Cassazione.
I motivi di impugnazione sono fondati sul fatto che la CTR avrebbe errato a fare leva sulla funzione risarcitoria delle dazioni di denaro.
La Corte rileva che:
- nella sentenza della CTR è contenuto l’accertamento di fatto, concernente la qualificazione, in relazione ai contratti preliminari non adempiuti, delle pattuizioni in esame come caparre confirmatorie (vi si legge che ‘‘… può legittimamente, limitatamente a quelli rimasti allo stato di contratto preliminare, in relazione alle somme ricevute, ammettersi la funzione risarcitoria derivante dalla qualificazione di caparra confirmatoria con conseguente esclusione dell’obbligo di fatturazione e di imputazione a ricavi’’);
- così qualificata la dazione non può che discernere un trattamento di esclusione da IVA.
Questa statuizione di fatto non è stata ritualmente contestata: la qualificazione del contratto è subordinata all’esatta ricognizione della comune volontà delle parti.
I contratti preliminari determinano l’insorgere dell’obbligo di fare, ossia della prestazione del consenso per la stipulazione dei definitivi; se l’obbligo discende dal contratto preliminare e non dal versamento della caparra, il secondo non può essere considerato come corrispettivo del primo.
La caparra risponde ad autonome funzioni:
- costituisce indizio della conclusione del contratto cui accede ed incita le parti a darvi esecuzione, considerato che colui che l’ha versata potrà perdere la relativa somma e la controparte potrà essere, eventualmente, tenuta a restituire il doppio di quanto ricevuto in caso di inadempimento ad essa imputabile;
- può svolgere, inoltre, funzione di anticipazione del prezzo, nel caso di regolare esecuzione del contratto preliminare, costituendo, invece, un risarcimento forfetario in caso d’inadempimento di questo, poiché il suo versamento dispensa dalla prova del quantum del danno subito in caso di inadempimento della controparte, salva la facoltà di richiedere il risarcimento del maggior danno (Cassazione 4 febbraio 2009, n. 2634; 19 settembre 2014, n. 19762; 8 giugno 2012, n. 9367).
Quindi:
- nell’ipotesi di regolare adempimento del contratto preliminare, la caparra è imputata sul prezzo dei beni oggetto dei definitivi, assoggettabili ad IVA, andando ad incidere sulla relativa base imponibile e, prima ancora, ad integrare il presupposto impositivo dell’imposta;
- nell’ipotesi di inadempimento, si determina il trattenimento della caparra, che serve a risarcire il promittente venditore.
Un tale risarcimento non costituisce il corrispettivo di una prestazione e, per conseguenza, non fa parte della base imponibile dell’Iva; in tal senso anche la Corte giustizia 18 luglio 2007, causa C-277/ 05.
Non è, quindi, applicabile l’indirizzo della Corte, secondo il quale la stipulazione del contratto preliminare di compravendita di un immobile, accompagnata dal versamento anticipato del corrispettivo, è sufficiente a realizzare il presupposto dell’imposizione IVA nei limiti dell’importo fatturato o pagato (Cassazione 15 maggio 2008, n. 12192 nonché 27 ottobre 2010, n. 21949 e 26 novembre 2014, n. 26088).
Le pattuizioni di caparre, difatti, sono contratti autonomi, in tal maniera distinguendosi dai versamenti di acconti, che costituiscono soltanto anticipazioni del prezzo e, quindi, adempimenti parziali anticipati delle future cessioni, rilevanti ai fini del suddetto presupposto d’imposizione.
Ovviamente, il pagamento di somme di denaro (o la dazione di cose fungibili), eseguito a titolo di caparra confirmatoria di un contratto di compravendita di bene immobile, è oggetto di fatturazione solo nella misura in cui tali somme (o cose fungibili) siano destinate ad anticipazione del prezzo per l’acquisto del bene, per volontà delle parti, accettabile dal giudice di merito in base ad elementi intrinseci ed estrinseci al contratto (Cassazione 22 gennaio 2007, n. 1320; 14 marzo 2014, n. 5982).
Di una cosa non si occupa la sentenza: esiste un limite quantitativo per poter attribuire ad una dazione di denaro la qualifica di caparra?
Vale a dire, un eccesso di importo può fare insorgere il dubbio che si tratti, almeno in parte di un acconto mascherato? Per rispondere al quesito bisognerebbe utilizzare la sensibilità ed il buon senso, riscontrando che, difficilmente, nella pratica si incontrano caparre di importo superiore al 10-15% del corrispettivo (pur se, va detto, non esiste un preciso parametro normativo).
Ciò non significa, ovviamente, che in particolari occasioni si possano giustificare esborsi più elevati, purché si provveda a cristallizzare il motivo che giustifica tale maggiore misura rispetto a quella normalmente praticata.