Attenzione al licenziamento durante il periodo di prova
di Luca VannoniNella fase genetica del rapporto di lavoro, le parti possono essere interessate all’apposizione a tale accordo di una clausola di prova, disciplinata dall’art. 2096 del codice civile, dove l’interesse prevalente è la sperimentazione e la valutazione, da parte del datore di lavoro, delle caratteristiche e delle qualità del lavoratore, nonché del proficuo inserimento di quest’ultimo nella struttura aziendale. Al termine del periodo, il datore di lavoro può licenziare il lavoratore, senza essere tenuto a motivare il licenziamento in modo specifico né a riconoscere il preavviso.
La libertà nel recesso, non subordinata alla specificazione di ragioni oggettive e soggettive, con un generico riferimento al mancato superamento della prova, non significa che il licenziamento sia a totale discrezione del datore di lavoro: i giudici infatti, tenuto conto di quanto espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza 189/1980, possono sindacare il licenziamento sia in riferimento all’obbligo dell’effettività della prova, sia in presenza di motivi illeciti o discriminatori.
Riguardo all’effettività della prova, è strettamente connessa la questione legata alla legittimità del patto di prova nel caso in cui le mansioni del lavoratore siano indicate in via eccessivamente generica. Il motivo della correlazione è percepibile immediatamente: se la prova è funzionale alla verifica delle caratteristiche della prestazione svolta dal lavoratore, e se è vero che la prestazione di lavoro è definita, a livello contrattuale, dalle mansioni indicate, allora l’eccessiva genericità di queste ultime non consentirebbero al lavoratore di essere valutato su parametri giuridicamente vincolanti.
La recente revisione della disciplina dell’art. 2103 del codice civile, in materia di mansioni, impone qualche riflessione nella definizione del patto di prova e della lettera di assunzione.
La maggior flessibilità nella variazione delle mansioni, ancorata esclusivamente al livello di inquadramento della contrattazione collettiva e alla categoria legale, non esclude la necessità di specificazione delle mansioni, in quanto circoscrivono il contenuto della prestazione per il possibile esperimento delle capacità del lavoratore.
Ne consegue che diviene illegittimo il licenziamento in caso di mancata adibizione alle mansioni contrattualmente previste, rischio che spesso si materializza nelle qualifiche elevate, in caso di assegnazione ad attività prevalentemente esecutive e non direttive.
È chiara quindi l’importanza della definizione delle specifiche mansioni che saranno oggetto della prova, in quanto qualsiasi scollamento tra il dato contrattuale e l’esperienza effettiva saranno valutati nell’ottica della tutela della professionalità del lavoratore.
L’illegittimità del recesso per mancato superamento della prova può determinare l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Tale norma, a seguito della Riforma Fornero, non prevede più dal 2012 come conseguenza monolitica la reintegrazione, ma sfaccetta le tutele a seconda delle diverse forme di illegittimità del licenziamento.
Non vi sono dubbi che, se il licenziamento dovesse essere stato disposto oralmente (il licenziamento per mancato superamento della prova non richiede la forma scritta), si applica la tutela prevista dal comma 1 dell’art. 18, con la tutela reintegratoria forte (con risarcimento dalla data di licenziamento alla reintegrazione, dedotto l’aliunde perceptum). Scontato il consiglio di formalizzare sempre il recesso.
Più complicata è la conseguenza in caso di licenziamento formalizzato con il richiamo al mancato superamento della prova: la mancanza di motivazione, essendo saltato il patto di prova, determinerà come regola generale l’insussistenza di motivazione, che determina la reintegrazione e il risarcimento limitato a 12 mensilità. Al momento sembra più difficile che la giurisprudenza approdi alla semplice tutela risarcitoria, fino a 24 mesi.
Le stesse difficoltà interpretative riguardano anche la nuova disciplina a tutele crescenti prevista dal D.Lgs. 23/2015: se logiche sistematiche imporrebbero l’applicazione della sola tutela risarcitoria, riconducendo l’illegittimità del recesso per mancato superamento del periodo di prova alla disciplina prevista per i licenziamenti per gmo illegittimi, è comunque presente il rischio di sentenze che dispongano la reintegrazione stante le possibili diverse interpretazioni dell’assenza di motivazione.
Nel momento, infatti, in cui il patto di prova viene considerato nullo, il giudice si trova a valutare un recesso privo di motivazione: se diventano difficilmente sostenibili dal datore di lavoro ragioni oggettive (es. la successiva assunzione di un altro lavoratore in prova renderebbe insostenibile la tesi processuale della valutazione sull’organizzazione del lavoro per la mancata conferma), è facile che la valutazione del rendimento al di sotto delle attese del datore di lavoro venga incanalato nei motivi disciplinari, come prevede l’orientamento prevalente sul tema, con l’applicabilità della reintegra per l’insussistenza del fatto.