È corretto chiedersi quanto, tale cementata posizione giurisprudenziale, sia coerente rispetto alla nuova disciplina dell’autotutela tributaria, come delineata ai sensi dei neo-introdotti articoli 10-quater e 10-quinquies, L. 212/2000, Statuto del contribuente, regolanti l’istituto nella sua rinnovata versione rispettivamente obbligatoria e facoltativa; in particolare in relazione al meccanismo dell’autotutela obbligatoria, la cui ratio, volta a “potenziare” l’esercizio del potere di autotutela, estendendone l’applicazione agli errori manifesti “nonostante la definitività dell’atto”, è ben fotografata dall’articolo 4, comma 1, lettera h), Legge di delega alla riforma fiscale (L. 111/2023).
Giova soffermarsi, per meglio padroneggiare il tema, sulle norme regolanti l’autotutela obbligatoria sul piano sia sostanziale che processuale: e dunque, in primo luogo, sul disposto dell’articolo 10-quater, L. 212/2000, per cui l’Amministrazione finanziaria procede in tutto o in parte all’annullamento degli atti impositivi, ovvero rinuncia all’imposizione, anche d’ufficio e pure in pendenza di giudizio o in caso di “atti definitivi”, in relazione alle casistiche di “manifesta illegittimità dell’atto o dell’imposizione” puntualmente elencate al comma 1, lettere da a) a g), dell’articolo 10-quater stesso; e in secondo luogo sul dettato del novellato articolo 19, comma 1, lettera g-bis), D.Lgs. 546/1992, recante la previsione dell’impugnabilità dei relativi dinieghi, tanto espressi quanto taciti, per “vizi propri” e non più per aleatorie ragioni di interesse generale e pubblico, come qualunque altro atto autonomamente impugnabile.
Sull’argomento, la stessa Agenzia delle entrate, con la sua circolare n. 21/E/2024, enfatizza l’innovativo ruolo di “strumento di protezione del contribuente” dell’autotutela obbligatoria (a scapito della previa concezione di un potere esercitabile in maniera largamente discrezionale da parte dell’ufficio), purché ricorrano, sotto un profilo “oggettivo” dell’istituto, errori manifesti dell’atto impositivo o dell’imposizione, in termini di evidente illegittimità o infondatezza della pretesa (come precisato dalla Relazione illustrativa al D.Lgs 219/2023 di Riforma); e tanto basta, allora, a ritenere superata la concezione giurisprudenziale “classica” dell’inimpugnabilità del diniego parziale di autotutela dell’atto definitivo, sempreché sia rispettata la duplice condizione, delineata dalla predetta circolare, che l’autotutela parziale non venga richiesta all’esito dell’intervenuta definizione parziale, anche agevolata, della pretesa, implicante versamenti irretrattabili (come nel caso dell’acquiescenza, dell’accertamento con adesione, della conciliazione processuale); e che i vizi di cui all’articolo 10-quater siano rilevabili dall’ufficio impositore ictu oculi e non richiedano, per la loro individuazione, la soluzione di questioni interpretative obiettivamente incerte, come quelle avvalorate da contrasti giurisprudenziali. In questo quadro, può essere allora utile interrogarsi circa le modalità con cui il contribuente istante debba motivare e dimostrare la sussistenza del vizio “manifesto” dell’atto impositivo, divenuto definitivo per mancata impugnazione entro l’anno dall’intervenuta definitività, come previsto dall’articolo 10-quater comma 2. Ora, se l’errore dell’imposizione erariale è appunto “manifesto”, in quanto ricadente in una delle casistiche dell’articolo 10-quater, comma 1 – si pensi a quella di cui alla lettera e), ossia l’errore sul “presupposto d’imposta” comprendente, tra gli altri, per la circolare n. 21/E/2024 citata, anche gli errori degli uffici determinanti doppie imposizioni, o il disconoscimento dei presupposti per fruire di deduzioni, detrazioni ed agevolazioni –, e se tale errore è accertabile ictu oculi da parte degli uffici, avvalendosi di dati già in loro possesso e senza necessità di confrontarsi con interpretazioni incerte del quadro normativo di riferimento, allora è possibile qualificare l’onere gravante in capo al contribuente istante, di dimostrare all’amministrazione l’esistenza del vizio del suo atto, come un onere “attenuato” a fronte del prevalente obbligo dell’ente impositore di riconoscere d’ufficio, e di rimuovere d’ufficio, la sua scorretta pretesa. In questa prospettiva, pare allora potersi escludere la negazione dell’autotutela obbligatoria allorché, per esempio, il vizio dell’atto divenuto definitivo venga evidenziato dal contribuente all’ufficio in forza di documentazione mai esibita prima all’ufficio stesso, ancorché richiesta in fase di controllo. Invero, l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici, e la ratio sanzionatoria dell’articolo 32, D.P.R. 600/1973, implicante l’inutilizzabilità in ambito amministrativo e giudiziale di dati e notizie non esibiti in risposta agli inviti dell’ufficio, non paiono, infatti, poter prevalere sul preminente obbligo dell’amministrazione finanziaria di annullare senza meno una pretesa tributaria “manifestamente illegittima”, laddove fatta valere in violazione dei principi di capacità contributiva dei contribuenti ex articolo 53, Costituzione.