La vicenda trae origine da un’attività di verifica fiscale eseguita presso un immobile al cui interno vi erano alcuni locali destinati ad ospitare la sede legale della S.r.l. oggetto di indagine e altri concessi in comodato a soggetti terzi. Detta attività si concludeva con la redazione di un processo verbale di constatazione, da cui è poi derivato un avviso di accertamento che riprendeva a tassazione costi non deducibili e non inerenti, ammortamenti indeducibili e IVA non detraibile.
La citata S.r.l. impugnava l’avviso di accertamento dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma, che accoglieva il ricorso procedendo all’annullamento dell’atto.
Seguiva l’appello dell’Agenzia delle entrate dinanzi alla Commissione tributaria regionale del Lazio, che respingeva il gravame sancendo l’illegittimità dell’atto impositivo e dell’attività di verifica da cui esso era scaturito, in quanto eseguita in carenza delle autorizzazioni prescritte dalla legge.
Più precisamente, il giudice di appello evidenziava che l’accesso era stato eseguito in un immobile nel quale, oltre ad esservi la sede della società, risiedevano diversi soggetti persone fisiche, ai quali la S.r.l. aveva concesso in comodato l’uso dei medesimi locali.
Pertanto, l’Agenzia delle entrate proponeva ricorso per cassazione sulla base di due motivi, mentre la società non spiegava difese.
In particolare, la ricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione dell’articolo 52, comma 1, D.P.R. 633/1972e dell’articolo 33, comma 1, D.P.R. 600/1973per aver la CTR ritenuto erroneamente necessaria l’autorizzazione del procuratore della Repubblica nel caso di specie, caratterizzato dal fatto che l’accesso era stato eseguito presso la sede della società e che il soggetto che abitava parte dei locali non era il contribuente, ma un terzo in forza di contratto di comodato concluso con la società.
Inoltre, si rilevava che la CTR avesse ragionato come se si trattasse di locale unico utilizzato promiscuamente, senza considerare la conformazione dei luoghi e, soprattutto, che l’immobile era diviso in piani e locali autonomi e solo in parte utilizzato per uso abitativo e che, in sede di verifica, non vi era stato alcun accesso alla zona destinata ad uso abitativo.
Ebbene, la Corte di Cassazione ha ritenuto fondate le suesposte eccezioni, rilevando come «il concetto di “locali destinati all’esercizio” delle attività oggetto di verifica è meno ampio di quello di “immobile” perché individua esclusivamente quelli nei quali l’attività viene esercitata, ben potendo i “locali” costituire parte degli immobili nei quali si trovano».
Ne consegue che è necessario che siano adibiti “anche ad abitazione” i locali destinati all’esercizio delle attività oggetto di verifica, e non che lo siano gli immobili nei quali essi si trovano.
A corroboramento di ciò, la Suprema Corte ha evidenziato che è questa la ragione per la quale si è affermato che l’uso promiscuo ricorre non soltanto nell’ipotesi in cui i medesimi ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l’attività professionale, ma ogni qualvolta l’agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento di documenti propri dell’attività commerciale nei locali abitativi (cfr., Cassazione, ordinanza n. 7723 del 28.03.2019; Cassazione, ordinanza n. 28068 del 16.12.2013).
In definitiva, quindi, per usare le parole dei giudici di vertice: «Non rileva … la destinazione promiscua dell’immobile, bensì dei locali».
Dunque, posto che il giudice di appello ha totalmente ignorato tali considerazioni, non valutando se, al di là del dato formale, i medesimi ambienti fossero realmente e contestualmente utilizzati per la vita familiare e l’attività professionale, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata, con rinvio alla CTR del Lazio per un nuovo esame.