L’autotutela non è facoltà disponibile per l’Ufficio
di Comitato di redazioneSi discute spesso, ultimamente, della portata dell’istituto dell’autotutela e, soprattutto, della sua reale funzione, fra strumentalizzazioni del contribuente e inerzia colpevole degli uffici.
Una recente sentenza della CTR Lazio (n. 1765 del 05-04-2016) si occupa proprio di tale questione, nell’ambito di un complicato processo relativo alla responsabilità tributaria di taluni eredi che, non avendo impugnato una sentenza nella quale era coinvolto il dante causa, si sono visti richiedere i tributi in solido tra loro, senza poter beneficiare del positivo esito del processo degli altri eredi.
Avendo probabilmente compreso la impossibilità di ottenere successo nell’impugnazione dell’atto di pretesa tributaria, un erede ha presentato istanza di autotutela all’Ufficio (che non ha fornito alcuna risposta) per vedersi accordata, quantomeno, la non solidarietà, con conseguente richiesta di limitazione della pretesa alla sola quota parte del gravame di sua spettanza. Si impugnava allora, tra l’altro, la illegittimità di tale silenzio.
A tale ultimo riguardo, la CTR ricorda – per vincere le censure dell’Agenzia – che la Cassazione (sezioni unite, n. 16776/2005) ha già confermato che sussiste la giurisdizione tributaria anche in ordine alle impugnazioni proposte avverso il rifiuto espresso o tacito della Amministrazione a procedere ad autotutela.
In tali casi, il ricorso è ammissibile solo per contestare la legittimità del rifiuto e non per porre in contestazione la pretesa, con la conseguenza che sono ammissibili i soli “ricorsi volti a dedurre profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare la legittimità della pretesa tributaria” (Cassazione n. 16097/2009, 1457/2010 e 22253/2015).
Nel caso di specie, il ricorso presentava sia richiesta di annullamento avverso la pretesa tributaria sia censure di violazione dei principi costituzionali regolatori dell’azione amministrativa e, per queste ultime, deve considerarsi legittimo.
Tale legittimità si conferma anche dalla lettura della Cassazione n. 25563/2014, per la quale il contribuente deve prospettare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto. Quindi, interesse pubblico come limitazione al potere impositivo degli uffici.
La revisione dell’atto e il suo annullamento sono opzioni che l’Ufficio valuta nell’esercizio di un potere discrezionale, che ad oggi è disciplinato dall’articolo 2-quater del D.L. 564/1994 e dal decreto ministeriale 37/1997. E, secondo tali disposizioni, l’Amministrazione finanziaria può procedere, in tutto o in parte, all’annullamento o alla rinuncia all’imposizione in caso di autoaccertamento, senza necessità di istanza di parte, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, quando sussista illegittimità dell’atto o dell’imposizione.
Quindi, come nel caso in analisi, quando il contribuente richieda – su basi non palesemente infondate – la valutazione di una possibile censura rientrante tra quelle specificamente elencate, l’Ufficio ha il dovere di porre in essere tale analisi.
Il potere – dovere si blocca solo dinnanzi ad un giudicato non più impugnabile, come a dire che il legittimo interesse pubblico non può oltrepassare l’operato consolidato dei giudici, anche per evitarne un aggiramento delle funzioni.
Interessante anche la circostanza – confermata dai giudici romani- in forza della quale l’obbligo di valutazione dell’istanza (a carico dell’Ufficio) risulta del tutto svincolato dagli effetti dell’eventuale inerzia processuale del contribuente.
In tal senso si richiamano, addirittura, le indicazioni della stessa Amministrazione (circolare n. 198/1998) che ha anche affermato a chiare lettere la doverosità del vaglio dell’annullamento d’ufficio dell’illegittimo atto con la risoluzione ministeriale n. 4079 del 18 luglio 1994.
Qui si affermò che “nel settore tributario, tra gli interessi pubblici idonei a sorreggere, sul piano della legittimità, l’intervento in autotutela è sicuramente da annoverare anche l’esigenza che al contribuente non sia richiesto di corrispondere più di quanto effettivamente dovuto in base alle norme in vigore; cosa che, altrimenti, urterebbe contro i principi di trasparenza e giustizia sostanziale oramai riconosciuti come immanenti a qualunque attività della pubblica amministrazione“.
Ecco allora che l’Amministrazione finanziaria ha lo specifico dovere di porre in confronto l’interesse privato sotteso all’istanza per valutare, in presenza del vizio di legittimità della pretesa tributaria, la compatibilità dell’annullamento della stessa con l’interesse pubblico all’esazione, verificando se esso sia meritevole di tutela perché non in contrasto con norme dell’ordinamento e con il principio fondamentale della correttezza dell’imposizione.
Il concetto, a ben vedere, viene richiamato anche dall’articolo 10 dello Statuto del contribuente, che impone la correttezza quale criterio di gestione del rapporto di imposta.
Quindi, nel caso specifico, il rifiuto di provvedere in autotutela sull’istanza della ricorrente volta alla riduzione dell’imposta in proporzione della sua quota ereditaria risulta lesivo delle suddette norme e dei suddetti principi, positivamente imposti all’Amministrazione; è quindi accertato il diritto della ricorrente ad ottenere dall’Amministrazione risposta alla predetta istanza in conformità alle disposizioni che disciplinano il potere di autotutela e l’imposizione agli eredi.
Complessivamente, dunque, la particolare casistica (invero molto specifica) che abbiamo evocato ci è assolutamente utile per ricavare un principio generale che può aiutarci in numerose situazioni ricorrenti.
L’istanza di annullamento in autotutela è uno strumento utile e corretto da utilizzare ogni qual volta sia del tutto carente la correttezza della pretesa tributaria (in modo oggettivo, dimostrabile e nel perimetro delle disposizioni che regolano il richiamato istituto), a prescindere dalla eventuale inerzia del contribuente.
Diversamente, lo strumento appare del tutto inutile quando si tratti di rimediare a delle palesi dimenticanze, normalmente riferibili all’inutile trascorrere del tempo per proporre le impugnative di rito avverso atti tributari.
Quindi, chi sbaglia paga, ma non certo per quanto attiene pretese non fondate, avverso le quali è esperibile il rimedio dell’autotutela.
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