Autotutela: quale limite alla discrezionalità dell’ufficio?
di Massimiliano TasiniPatrizia Pellegrini
L’art. 1 del D.M. 37/1997 prevede in capo all’Ufficio competente, od in caso di inerzia di questo, in capo alla Direzione Regionale dalla quale lo stesso dipende, il potere di annullamento o di revoca dell’atto illegittimo.
L’autotutela dell’Amministrazione finanziaria, al pari di quella di qualsiasi Pubblica Amministrazione, è attività che consiste nel riesame di un provvedimento di primo grado finalizzato al suo annullamento, in quanto affetto da vizio di illegittimità od a motivo dell’illegittimità dell’imposizione.
La quaestio attiene alla natura di tale potere, se discrezionale, come è nel diritto amministrativo ove la ricorrenza del presupposto dell’interesse pubblico specifico costituisce condizione indefettibile dell’autotutela, o vincolato, in considerazione del fatto che la discrezionalità amministrativa nella determinazione dell’an e del quantum dell’obbligazione tributaria deve ritenersi del tutto assente, coerentemente con un sistema fiscale che garantisce il rispetto dei principi di rango costituzionale enunciati dagli articoli 23 (principio di legalità), 54 (principio di capacità contributiva) e 97 (principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione).
In questa prospettiva, la discrezionalità dell’Amministrazione finanziaria si riduce ad una valutazione sulla fondatezza e sul grado di (in)certezza della situazione giuridica da accertare, ma anche in tale evenienza non può certamente prescindersi dal rispetto della previsione normativa e dei principi costituzionali.
A maggior ragione, se si considera che il principio di discrezionalità, immanente nell’esercizio delle pubbliche funzioni, è il fondamento stesso della responsabilità dei pubblici funzionari, i quali sono tenuti all’osservanza dei principi generali contenuti nel Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al decreto 28/11/2000 del Dipartimento delle Funzione Pubblica presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Tra gli altri:
- principio del neminem ledere;
- principio del rispetto dell’affidamento dei terzi;
- principio di parità di trattamento (che implica l’assunzione di una decisione solo dopo aver ponderato adeguatamente i diversi interessi in gioco);
- principio del buon andamento della Pubblica Amministrazione;
- principio di ragionevolezza.
Di tal che, la correzione presuppone il vizio dell’atto e null’altro, non implica una comparazione di interessi per verificare se debba comunque prevalere l’interesse alla conservazione dell’atto e quindi al gettito finanziario che ad esso consegue, essendo giustificata unicamente dal dovere dell’Amministrazione Finanziaria di ripristinare la legalità violata.
Del resto, le norme in tema di autotutela (cfr. art. 2-quater, D.L. 564/1994 e art. 2, D.M. 37/1997) non contengono riferimento alcuno alla necessità che sussista un interesse pubblico specifico e concreto, posto che l’illegittimità, di per sé, è una ragione di pubblico interesse idonea e sufficiente.
Recte, mancano interessi confliggenti da valutare comparativamente, atteso che l’attività di accertamento dei tributi consiste nella determinazione dell’imponibile e dell’imposta nel rispetto della previsione di legge.
In questa prospettiva, l’autotutela tributaria si risolve in attività idonea ad assicurare la tax compliance tra contribuente e fisco, in ragione della fondata pretesa del primo, all’annullamento dell’atto impositivo illegittimo ed infondato, e del secondo, all’invarianza del rapporto costo/benefici amministrativi.
Peraltro, la stessa norma configura la prevenzione del contenzioso tributario quale una delle fondamentali finalità dell’autotutela. L’art. 3 del D.M. 37/1997, nello stabilire criteri di priorità in relazione all’attività di autotutela, annota le fattispecie di rilevante interesse generale e, fra queste ultime, quelle per le quali sia in atto o vi sia il rischio di un vasto contenzioso.
E non v’è dubbio che quando l’illegittimità nel diritto tributario, idonea ad incidere sulla sfera patrimoniale del contribuente, investe principi sostanziali di rango costituzionale non può che innescare, a ragion veduta, la lite: di qui, l’importanza della funzione deflattiva del contenzioso svolta dall’autotutela e gli importanti riflessi in termini di economia processuale.
Atteso che l’annullamento d’ufficio dell’atto viziato è finalizzato a realizzare un’imposizione conforme alla legge, ed avuto altresì riguardo al principio di indisponibilità del credito erariale, occorre precisare che il concetto di illegittimità (dell’atto) è riconducibile unicamente a quei vizi che abbiano natura sostanziale e, dunque, siano inerenti all’esistenza e/o all’ammontare del credito tributario, quali quelli di cui è elencazione (esemplificativa) nell’art. 2 del D.M. 37/1997. Il che vale a suffragare la sufficienza dell’illegittimità siccome assunta ad esprimere la ragione di pubblico interesse alla rimozione dell’atto, ed altresì a negare che l’autotutela divenga strumento per riesumare il diritto di contestare la fondatezza della pretesa tributaria (colpevolmente) non esercitato.
A tal riguardo, ed infine, si rappresenta che l’art. 21-octies della legge 241/1990, che autorevole dottrina ritiene applicabile anche alla materia tributaria, esclude l’annullabilità del provvedimento quando sia affetto da vizi formali che non influiscono sul suo contenuto dispositivo, quali sono, invece, i vizi che incidono sull’an e sul quantum dell’imposta.