Nell’attuale formulazione del Testo Unico, tale disposizione “di chiusura” non è stata riproposta, lasciando quindi spazio alle interpretazioni dell’Agenzia delle Entrate ed alla giurisprudenza.
Si è perciò ricavato un “trittico” di soggetti, in relazione a chi vende l’opera d’arte:
- il collezionista (per il quale non emerge reddito imponibile ai fini delle imposte dirette);
- il venditore occasionale (emerge reddito imponibile ai fini delle imposte dirette, quale reddito diverso);
- il mercante d’arte (emerge reddito imponibile ai fini delle imposte dirette, quale reddito d’impresa).
Risulta problematico distinguere aprioristicamente la figura del collezionista da quella del mercante d’arte, in quanto il discrimen è squisitamente fattuale; tuttavia, si può schematicamente affermare quanto segue.
Da un lato, si colloca il mercante d’arte, il quale svolge “professionalmente” un’attività di intermediazione nella circolazione di opere d’arte, acquistandole col fine di rivenderle sul mercato e ritrarne un lucro (sin dall’acquisto, il bene è inteso verso una destinazione esterna). Dall’altro lato, si pone il collezionista, il quale non esercita “professionalmente” un’attività di intermediazione nella circolazione di opere d’arte, in quanto le sue operazioni sono volte a soddisfare in primis un desiderio squisitamente personale: infatti, l’acquisto non è preordinato alla successiva rivendita sul mercato ed assume, perciò, una destinazione meramente privata.
Nel mezzo si colloca il venditore occasionale, che presenta in modo più sfumato elementi sia del collezionista sia del mercante d’arte.
Tanto chiarito, l’osservazione della giurisprudenza si rivela utile per meglio delineare le caratteristiche delle tre figure sopra identificate, permettendo di fissare alcuni punti:
- è fisiologico che un collezionista acquisti e venda opere d’arte, allo scopo di cambiare ed arricchire la propria collezione: porre in essere – anche in modo significativo – acquisti e vendite, infatti, risponde al mutamento della percezione estetica, non al fatto che si sta ponendo in essere attività imprenditoriale. In altre parole, la dedizione nel tempo alla creazione ed al mantenimento della propria collezione, e l’esperienza via via accumulata in materia artistica, non integrano necessariamente la ripetizione sistematica di atti di commercio tipici dell’esercente professionale un’attività imprenditoriale (sul punto, cfr. ad esempio Comm. Trib. Reg. Torino, 18 settembre 2018, n. 1412);
- altro è la dismissione di opere d’arte da parte del collezionista proprietario, altro è lo svolgimento di un’attività imprenditoriale nell’ambito della compravendita di opere d’arte. Nel liquidare un patrimonio, le ragioni possono essere le più svariate, quali la necessità di reperire liquidità per immetterla in proprie diverse attività imprenditoriali, sostenere ingenti spese giudiziarie di carattere personale, pianificare la successione tra gli eredi, così evitando future controversie, etc. (cfr., per questa eterogenea casistica, ex multis, Comm. Trib. Reg. Venezia, 22 febbraio 2016, n. 279; Comm. Trib. I° grado Trento, 27 novembre 2017, n. 191; Comm. Trib. Prov. Torino, 19 aprile 2018, n. 351; Comm. Trib. Reg. Torino, 18 settembre 2018, n. 1412);
- il trascorrere di un ampio arco temporale tra acquisto e vendita depone verso l’assenza di una finalità imprenditoriale o speculativa, intesa nel senso di acquisto quale atto prodromico posto in essere, sin da subito, con la finalità di perfezionare una successiva rivendita (cfr. Comm. Trib. I° grado Venezia, 2 giugno 1994, n. 323; Comm. Trib. I° grado Trento, 27 novembre 2017, n. 191; Comm. Trib. Reg. Torino, 18 settembre 2018, n. 1412);
- la modalità di cessione tramite casa d’aste può ampiamente giustificarsi per l’originalità e la particolarità dell’operazione (cfr. Comm. Trib. I° grado Venezia, 2 giugno 1994, n. 323; Comm. Trib. I° grado Trento, 27 novembre 2017, n. 191, secondo cui un quadro di particolare rilevanza non può essere affidato a “mani inesperte” né si può pensare possa facilmente cedersi tra privati).
La recente ordinanza n. 6874/2023 della Corte di Cassazione costituisce una sorta di summa sistematizzata degli approdi giurisprudenziali appena citati, forgiando in maniera nitida il trittico di categorie sopra enucleato, ripreso poi dalle pronunce successive.
A tal fine, giova riproporre i passaggi nodali della chiara e condivisibile sentenza: “preso atto che il Testo Unico delle Imposte sui Redditi non prevede una normativa specifica sulla tassazione delle compravendite di opere d’arte effettuate dai privati, va definito come mercante di opere d’arte colui che professionalmente e abitualmente ne esercita il commercio – anche in maniera non organizzata imprenditorialmente – col fine ultimo di trarre un profitto dall’incremento del valore delle medesime opere; come speculatore occasionale, chi acquista occasionalmente opere d’arte per rivenderle allo scopo di conseguire un utile. Il collezionista è, infine, chi acquista le opere per scopi culturali, con la finalità di incrementare la propria collezione e possedere l’opera, senza l’intento di rivenderla generando una plusvalenza”.
Il Supremo Collegio precisa ulteriormente quanto segue, con riferimento al collezionista: “L’interesse del collezionista è quindi rivolto non tanto al valore economico della res quanto a quello estetico-culturale, per il piacere che il possedere le opere genera, per l’interesse all’arte, per conoscere gli artisti, per vedere le mostre”.
Da ciò, vengono tratte queste (condivisibili) conseguenze sul piano tributario: “Con riguardo alla casistica di cui sopra, il sistema fiscale italiano prevede, come anticipato, conseguenze differenti: per il primo (il mercante d’arte) si è in presenza di redditi d’impresa ex artt. 55 ss. TUIR e di passività ai fini IVA come previsto dall’art. 4 del DPR 633/72. Lo speculatore occasionale potrà generare i redditi diversi di cui all’art. 67, c. 1, lett. i), TUIR non trovando però assoggettamento ai fini IVA per mancanza del requisito dell’abitualità. Il collezionista invece non sarà soggetto ad alcuna imposizione. La dottrina ha enucleato gli elementi su cui fondare la diversa qualificazione, quali: lo scopo dell’acquisto, la frequenza e il numero delle transazioni, la durata del possesso, le attività finalizzate a facilitare la vendita e infine l’esame delle ragioni che hanno portato all’alienazione.
La giurisprudenza ha individuato il discrimine sulla base del requisito dell’abitualità, di cui all’art. 55 TUIR sopra richiamato in tema di reddito d’impresa. Questa Corte ha così rinvenuto l’esistenza di un’attività commerciale in ragione di elementi significativi idonei a dimostrare la sistematicità e la professionalità dell’attività d’impresa: numero delle transazioni effettuate, importi elevati, quantitativo di soggetti con cui venivano intrattenuti rapporti, varietà della tipologia di beni alienati, statuendo che non rileva, ai fini impositivi, che il profitto conseguito venga capitalizzato in beni e non in denaro, in quanto porta sempre intrinsecamente un arricchimento del patrimonio personale del soggetto (Cass. 31 marzo 2008, n. 8196). È così stata rinvenuta un’attività commerciale in presenza simultaneamente della rilevanza dell’investimento e dell’esclusione dell’utilizzo nella sfera personale dei beni oggetto di compravendita (Cass. 20 dicembre 2006, n. 27211)”.
Movendo da queste lineari premesse, altrettanto piana (e del pari condivisibile) sembra la conclusione: “Nella fattispecie la sentenza impugnata, in coerenza con gli indicati principi, ha qualificato il contribuente come mercante e non come collezionista in base ad una serie univoca di elementi dimostrati dall’ufficio, quali: l’alienazione di opere di artisti di rilievo” (Morandi, Severini, Paladino, Botero, Lichtenstein, Carrà); “la cadenza regolare negli anni e per importi notevoli, le interviste dove lo stesso contribuente si qualificava come mercante d’arte, partecipazione di incontri in tale veste”, a fronte dei quali ha considerato “vane le affermazioni del privato circa la propria natura di mero collezionista”: la valutazione del giudice di merito poggia pertanto su un quadro di elementi indiziari in grado di fondare la prova presuntiva secondo i canoni degli artt. 2727 e 2729 c.c.”.
Insomma, abbracciando un approccio tanto sistematico quanto curvato sul caso concreto, il Supremo Collegio ha valorizzato, cristallizzandoli, i principali indici già emersi nella precedente produzione giurisprudenziale, con ciò rappresentando una pietra miliare per le pronunce successive.
Infatti, sullo stesso piano interpretativo, si collocano le ancor più recenti: Cassazione, ordinanze n. 1603/2024, n. 1610/2024 e n. 19363/2024, così a confermare i citati principi giuridici.