Caccia ai “consulenti” che ricoprono la veste di “ideatore/facilitatore”
di Fabrizio G. PoggianiLa giurisprudenza di legittimità e l’Amministrazione finanziaria puntano sempre di più il dito verso i consulenti che si “prestano” a comportamenti indebiti, facilitando atteggiamenti evasivi e/o elusivi dei propri clienti.
L’accento è stato posto recentemente anche dalla circolare 16/E dello scorso 28 aprile che ha fornito agli uffici periferici gli indirizzi operativi di prevenzione e contrasto all’evasione.
Posta la necessità di eseguire le attività di controllo anche nei confronti dei professionisti interessati, in particolare, agli studi di settore, la direzione centrale e accertamento ha segnalato la necessità di valutare “ricorrenze di comportamento tra soggetti che si avvalgono dello stesso consulente e/o intermediario” e, soprattutto, se vi sono elementi che facciano emergere, in capo al consulente, un ruolo di “ideatore/facilitatore” del comportamento evasivo del contribuente-cliente.
L’Agenzia delle entrate evidenzia che tale verifica deve essere fatta, soprattutto, per evitare di mettere in cattiva luce una categoria che, “al contrario, è in larghissima parte attiva per garantire il corretto adempimento degli obblighi fiscali”.
Si ricorda, peraltro, che anche la Suprema Corte (sentenza n. 17418/2016) ha recentemente affermato che il professionista che, incaricato della tenuta della contabilità delle aziende, suggerisce l’inserimento di fatture “fittizie” (e di conseguenza, di costi da dedurre) con l’obiettivo di abbattere la base imponibile, concorre con lo stesso contribuente nel reato e, di conseguenza, può essere giudicato e condannato per la frode fiscale.
Sul caso, infatti, la Cassazione ha affermato che nel reato di frode fiscale possono incorrere anche coloro che, pur non ricoprendo cariche nell’impresa, abbiano in qualsiasi modalità partecipato a creare un meccanismo fraudolento, teso alla riduzione dell’imponibile fiscale e, di conseguenza, al pagamento di minori imposte.
Sulla medesima falsariga, un’ulteriore sentenza dei giudici di legittimità (Cassazione, sentenza n. 19335/2015) ha affermato che risponde dei delitti di emissione e di utilizzazione di fatture relative a operazioni inesistenti, il consulente di una società che, “consapevole” delle condotte illecite poste in essere dagli amministratori della medesima società, fornisca un contributo “intenzionale” e “consapevole” alla realizzazione dei fatti di natura criminosa.
Di contraltare, un recente intervento dei giudici del Tribunale di Firenze (sez. III 3/09/2014) ha asserito che non subisce un danno ingiusto (quindi risarcibile) il cliente-contribuente che, in relazione a un accordo fraudolente (peraltro “nullo”) con il proprio consulente, sia sanzionato dai funzionari dell’Amministrazione finanziaria per comportamenti fraudolenti come l’omessa contribuzione o lo “scarico” di costi non documentati.
Dalla lettura combinata, pertanto, delle indicazioni dell’Agenzia delle entrate e della giurisprudenza di legittimità è estremamente chiaro che l’obiettivo non è il consulente che, sviluppando il proprio lavoro, cade in errore, ma il consulente che, “consapevolmente”, fornisce al cliente-contribuente strumenti per frodare il fisco.
Di fatto, pertanto, nella buona intenzione dei giudici e dell’Amministrazione finanziaria si intende colpire l’intervento “attivo” del consulente ovverosia una vera e propria compartecipazione all’attività criminosa, a prescindere dalla relativa entità; bisogna, però, fare attenzione perché la Cassazione, su questo tema, è andata ben oltre.
Infatti, se è dimostrato che il consulente, pur non essendo l’artefice principale di una condotta fraudolenta, partecipa fattivamente alla realizzazione del fatto criminoso, è corretto che lo stesso risponda, addirittura quale parte direttamente in causa, dei reati fiscali; ma ciò che lascia perplessi è che la recente sentenza richiamata (sentenza n. 19335/2015) ha affermato che il professionista “può rafforzare l’altrui proposito criminoso” anche limitandosi a svolgere il compito ordinario di tenuta delle scritture contabili, mettendo sullo stesso piano, per esempio, il consulente che “fornisce” i documenti di spesa “fittizi” al cliente-contribuente e il consulente che redige “la dichiarazione sulla base dei documenti annotati in contabilità direttamente dal contribuente” e che si rende conto, nel “predisporre la dichiarazione”, della presenza di una fattura passiva riferibile a operazioni inesistenti.
La situazione risulta estremamente dirompente, in quanto, paradossalmente, il consulente dovrebbe attivarsi, secondo questo orientamento, non solo per eseguire un controllo di natura formale della fattura, ma anche per verificare la bontà dei contenuti dei documenti registrati, con riferimento esplicito all’esistenza o meno delle operazioni sottostanti; situazione sempre complicata, a maggior ragione se la contabilità è tenuta esternamente allo studio e direttamente dal contribuente.
Tutto ciò perché, come indicato dai giudici di legittimità, il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti si concretizza, ai sensi dell’articolo 2 D.Lgs. 74/2000, quando il contenuto della dichiarazione è costituito da un impianto documentale che tende a ostacolare le attività di accertamento o a supportare dati artatamente non veri; la norma è stata mutuata partendo da alcuni elementi costitutivi delle fattispecie individuate dalle lettere d) e f) dell’articolo 4 della legge 516/1982.
In conclusione, in virtù delle recenti istruzioni fornite dall’Agenzia delle entrate, e preso atto che gli uffici periferici devono concentrarsi soprattutto sull’indebita deduzione di componenti negativi, tralasciando le contestazioni di natura meramente formale, è doveroso tenere conto di quanto affermato recentemente dalla Cassazione in tema di responsabilità del consulente “consapevole”.